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Черданцева Т.З. ит. для совершенствующихся.doc
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6. A) Servendovi dei vocabolari della lingua italiana di Zingarelli, di Palazzi, o d'altri autori, spiegate l'uso del verbo tirare.

b) Traducete in russo le espressioni e usatele in frasi:

I cavalli tirano la carrozza; una parola tira l'altra; uscì tirandosi dietro l'uscio; lo tirò a se e lo strinse tra le braccia; tira a te la cassetta; i più tirano i meno; la pipa tira bene; la terrà asciutta tira l'acqua; lo tirarono su i compagni; tirati su da te; tirar l'acqua al mulino di qd; tirar su i bambini; tirar giù la tenda; tirar fuori il coltello; tirar fuori delle scuse; tirar fuori argomenti importanti; tirar in alto la bandiera; tirar avanti (indietro) la sedia; tirar avanti la famiglia; tirar da parte qd; tirarsi da parte; tirare uno per i capelli; tirare il paletto (il chiavistello); tirare le somme; tirar la stampa; tirare sul nemico; tirare a lepre; tirar tardi.

c) Inventate una breve storia, in cui possa spontaneamente figurare una delle espressioni col verbo tirare.

7. A) Trovate dei sinonimi dell'espressione esser avvezzo a qc.

b) Mettete in frasi: esser abituato (accostumato, consueto) a qc.

8. Leggete il saggio, riassumetelo in italiano e in russo: carlo muscetta su d. Rea

Ennesimo fra i discepoli meridionali del Caravaggio, Rea seppe gettare fulminei colpi d'occhio a questa «rinascita del mondo avvenuta così popolosamente».

«La figlia di Casimiro Clarus», che Francesco Flora (bene­merito scopritore di Rea) presentò a Mercurio nel'45 fu il primo racconto di Rea, pubblicato però tre anni dopo la composizione. Fu salutato dai letterati come una novità. Ed era tale ma non proprio per quel tono di composta allegria che suggellava melodiosamente il racconto (l'amore di un povero maestro elementare per «un'innocenza di donna», figlia di un ricco agrario); bensì a causa della figura di Casimiro, che tanto disprezza quel maestrucolo, e geloso di sua figlia come d'ogni suo bene, gl'invidia e gl'impedisce quella felicità che lui stesso non è riuscito a possedere, affogato nella grascia e avvelenato dalla convivenza di una moglie troppo cafona e troppo fedele. Questo racconto, ristampato da Rea opportunamente in appendice al suo primo volume, Spaccanapoli, è da considerare come l'addio a un certo consolato lirismo della vecchia letteratura, quella del Ventennio. Nei moti frenetici di Casimiro, spinti fino ad una tormentata buffoneria, che contrasta con la dolente passione dei due giovani, c'era uno spunto tragico a cui avrebbe potuto dare sviluppo solo una tragedia più vasta. Una dichiarazione di commovente ingenuità si legge in questo racconto: «II vero è ciò che è sentito, ciò che si fa sentimento». Per forza di fatti, questa divenne la poesia di Rea, al tempo dell' Interregno: questo fu il suo vero, questo divenne il sentimento delle sue novelle.

Non sono quelle del Decamerone, ci ha avvertito un critico. Certamente. E chi mai oggi può sopportare paragoni siffatti? Allo spreco di parentele più o meno illustri per celebrare le qualità di Rea, e forse ingeneroso contrapporre tutte le «incongnienze» che si possono leggere nei suoi scritti (e ce ne sono assai più che nei quadri del Caravaggio). Persone poco caratterizzate, linguaggio incerto fra lingua e dialetto, oscurità di frappassi psicologici e di' ambientazione (fra l'altro tutti credono che la scena sia a Napoli, e invece siamo in provincia).

Rea illumina vivamente il sottosuolo della disgregazione meridionale, riesce ad imprimere nella nostra memoria fotogram­mi audacissimi. Ecco la «prostitutella pallida e freddolosa, con le dita sporche di nicotina, che cambiava paese e seguiva «in tradotta» le lunghe e comode colonne americane. Se le si dava a parlare non rispondeva. Se le si offriva una cosa, ringraziava con gli occhi attraversati di fraterna luce. Negli altri momenti della sua vita doveva usare gli «occhi falsi». E allo scandalo capitato in un convento: «Gesù, fate luce», — grida una monaca alla vista di Piededifico, il «pezzente-stabile» che non potendo più esercitare la sua professione, s'è cacciato nella ben provveduta cantina delle nostre sorelle in Cristo, e ha trovato finalmente il sistema per mangiare lui e la sua famiglia.

Ma il più bel racconto di Rea s'intitola «La signora scende a Pompei», ed è stato pubblicato in un settimanale milanese, che veramente non era il più adatto ad ospitarlo. Qui Rea ha dimostrato di saper rimanere nel racconto, contenendosi e rattrappandosi nella delusione di una povera vecchia, che in un bell'autobus credeva di poter viaggiare e di poter recarsi a Napoli ad accompagnare un'altra derelitta, una mutilatina di guerra: i soldi non bastano anche per lei, il fattorino le offre cinquanta lire, per non offendere i signori viaggiatori che si limiteranno a donarle spalle e nuche senza orecchie. La signora scende e la bimba prosegue, l'aspetterà al capolinea. A Pompei certi «miracoli» non accadono.

Adattato da «Letteratura militante» di C. Muscetta