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I pattiti antifascisti vogliono l'abdicazione del re. LaDc deve peró tener conto del proprio elettorato. Gli americani aspettano. Ma la Repubblica è ormai inevitabile

La caduta del fascismo, il 25 luglio del 1943, non pone immediata-mente il problema di un mutamento dell'assetto istituzionale italiano: vale a dire di un passaggio dalla Monarchia "alla Repubblica. In un primo momento, anzi, la posizione di Casa Savoia — a dispetto delle sue pesanti compromissioni con il regime mussoliniano — appare perfino rinforzata grazie al ruolo decisivo svolto da Vittorio Emanuele III nell'eliminazione della dittatura. E lo dimostra il fatto che, durante quella notte dopo che l'ultimo giornale radio ha dato, poco prima delle ventitré, la notizia delle dimissioni del "cavalier Benito Mussolini" e della sua sostituzione con il "maresciallo d'Italia Pietro Badoglio", molte migliaia di persone escono per le strade di Roma per raccogliersi sulla piazza del Quirinale, ad applaudire il re (che fa una breve apparizione sul balcone).

La situazione cambia radicalmente un mese e mezzo più tardi. La fuga da Roma dell'intera famiglia reale e di Badoglio, la sera dell'8 settembre, subito dopo l'improvviso annuncio da parte alleata della firma dell'armistizio con gli Stati Uniti e l'Inghilterra (cioè il fatto che coloro che incarnavano la continuità dello Stato, preoccupati unicamente di mettere in salvo se stessi, abbiano abbandonato la capitale, senza lasciare dietro di loro un'autorità capace di rappresentare il potere legittimo e di coordinare la resistenza contro i tedeschi), crea, sia politicamente che emotivamente, un fatto nuovo, che si riflette già nelle prime due riunioni del CLN (il Gomitato di liberazione nazionale, formato dai sei principali partiti antifascisti: Democrazia cristiana, comunisti, socialisti, liberali, Partito d'azione e Partito democra­tico del lavoro): nel corso delle quali i rappresentanti azionisti, sostenuti da una parte dei socialisti, cercano di far approvare dai loro colleghi una dichiarazione di "decadenza della monarchia".

Impostazione che, tuttavia, non prevale, per l'opposizione non solo delle correnti più conservatrici, ma anche della DC e dello stesso PCI (Partito comunista italiano): convinti che una simile dichiarazione, oltre a scontrarsi con l'orientamento degli alleati (in primo luogo degli inglesi), avrebbe superato i limiti di azione da parte di un potere di fatto quale il CLN, e sul piano pratico avrebbe diviso il fronte antifascista, e ridotto la sua capacità di lotta contro i tedeschi.

Quello che in tal modo si sviluppa è un quadro confuso. In tutta l'Italia centrosettentrionale la Resistenza ha come punto di riferimento il CLN, che ha accantonato il problema istituzionale, ma appare, nella grande maggioranza, favorevole ad una solu­zione repubblicana. Mentre nelle regioni meridionali, liberate dagli anglo-americani, esiste un governo monarchico, indebolito però non solo dai poteri molto ridotti che gli vengono riconosciuti dalle autorità occupanti ma anche dalla sua scarsissima rappresen­tatività. Del resto, tutti i partiti antifascisti (anche i più moderati) subordinano ogni progetto di collaborazione governativa all'abdicazione del re che ha contribuito all'ascesa di Mussolini.

Questa situazione di stallo viene sbloccata da due avvenimenti. Il primo dei quali, in ordine di tempo, è l'accordo che alla fine del febbraio del 1944 viene raggiunto tra l'esponente prefascista (e futuro primo presidente della nuova Repubblica) Enrico De Nicola e la Corona. Un compromesso che prevede il ritiro definitivo dalla scena politica (ma non l'abdicazione) di Vittorio Emanuele III nel momento — che appare ormai imminente — della liberazione di Roma, e il trasferimento dei suoi poteri a un "luogotenente del regno" nella persona del figlio Umberto. Il secondo è l'arrivo a Napoli un mese più tardi, esattamente il 27 marzo, dal suo lungo

esilio in Unione Sovietica, del capo del PCI, Ercole Ercoli: vale a dire, Palmiro Togliatti.

Tornato in Italia dopo quasi vent' anni, Togliatti modifica profondamene le precedenti linee direttive del suo partito (e sconvolge l'impostazione generale dei partiti del fronte anti­fascista) con una dichiarazione del 1 aprile 1944, in cui precisa che i comunisti italiani, senza porre alcun' altra condizione, sono pronti a partecipare ad un esecutivo che sia capace di concentrare tutti gli sforzi nella lotta contro il nazismo. Spiazzati da questa iniziativa, tutti gli altri partiti rinunciano alle loro precedenti pregiudiziali. E si giunge, così, il 22 aprile 1944, ad un governo — che, presieduto da Pietro Badoglio, giura nelle mani di Vittorio Emanuele III — composto da tutti e sei i partiti del CLN.

A questa soluzione ha contribuito anche, in maniera de­terminante, il fatto che l'accordo tra De Nicola ed i Savoia, che in un primo momento era rimasto segreto, era stato nel frattempo conosciuto. Esso acquista, tuttavia, carattere pienamente ufficiale solo dopo la liberazione di Roma. Entrati gli alleati nella capitale, nella serata del 4 giugno, Vittorio Emanuele III si mette quindi immediatamente da parte, ed è il luogotenente che, su indicazione dei sei partiti antifascisti, dá l'incarico di formare il nuovo governo a Ivanoe Bonomi, presidente del CLN nazionale. Inoltre, per la prima volta, i ministri, al momento di assumere l'incarico, non giurano più fedeltà alla Corona, ma si impegnano solo ad esercitare le loro funzioni nell'interesse supremo della nazione e a non compiere atti capaci di pregiudicare la piena libertà della scelta popolare sulla questione istituzionale. Né è questa la sola novità di rilievo: perché, come risultato della rottura del precedente equilibrio politico e giuridico, vi è, il 25 giugno, la promulgazione, da parte del governo, di una legge che, attribu­endo ad un'Assemblea costituente il compito di decidere, subito dopo la fine del conflitto, la nuova forma dello Stato, toglie alla monarchia ogni posizione di privilegio.

In tal modo, tutto è rimandato alla liberazione dell'Italia settentrionale: che, contro le previsioni e le aspettative, tarda ancora per quasi un anno. Inoltre neppure il realizzarsi di questo evento — grazie allo sfondamento della "linea gotica" da parte delle divisioni alleate e all'insurrezione partigiana del 25 aprile — produce immediatamente, per quanto riguarda il problema istituzionale, la svolta che molti avevano sperato. Al contrario si apre una fase di lotta politica, per molti aspetti convulsa e perfino drammatica, in cui le dichiarazioni e le mosse scoperte si mischiano alle iniziative riservate e alle pressioni occulte.

Per quanto riguarda lo schieramento politico interno, favorevoli alla Repubblica sono i comunisti, i socialisti, gli azionisti: oltre, naturalmene, al Partito repubblicano, che tuttavia non fa parte del CLN. Contrari, oltre al Partito monarchico (anch'esso, per motivi opposti, estraneo al Comitato di liberazione nazionale) è la maggioranza dei liberali e dei demoproletari. Meno facilmente definibile è, invece, la posizione della De: dato che i suoi dirigenti sono, nella maggioranza, favorevoli ad un cambiamento della forma istituzionale dello Stato, mentre tra i suoi potenziali elettori i monarchici (o coloro che temono la Repubblica come un "salto nel buio") sono decisamente più numerosi.

Questa situazione intema del Partito cattolico contribuisce a spiegare la posizione che il leader democristiano Alcide De Gasperi assume, nei mesi immediatamente successivi alla liberazione (che sono poi quelli decisivi), su due temi fondamen­tali: quello della data delle elezioni e quello del modo in cui va effettuata la scelta istituzionale. De Gasperi ha chiarissimo un punto: che se alcuni cambiamenti devono avvenire, ed in particolare deve esservi un trapasso dalla Monarchia alla Repubblica, è bene che questo processo si sviluppi nella maniera più cauta ed indolore possibile. La sua opinione, fermissima, anche se espressa in maniera solo indiretta, è quindi che è opportuno ritardare le elezioni politiche e, in tutti i casi, farle precedere da quelle amministrative.

La scontro con le sinistre — che, come si è detto, desiderano esattamente il contrario:Nenni ha coniato lo slogan "O la Costituente o il caos" — raggiunge il suo punto culminante nell'estate del 1945. In quel momento alla guida del governo —- formato, sempre.su basi assglutamente paritetiche, dai sei partiti del CLN, sebbene siapalese la loro diversa forza politica — vi è Ferruccio Parri, il partigiano "Maurizio" che ha comandato al Nord il Corpo volontari della libertà e che è uno degli esponenti più prestigiosi del Partito d'azione; mentre De Gasperi è ministro degli esteri, ed è proprio questa posizione a permettere al leader democristiano di muoversi con particolare efficacia.

Mentre i partiti del CLN discutono animatamente ed ormai polemicamente la data delle elezioni, Parri riceve infatti il 24 agosto una visita dell' ambasciatore americano a Roma Alexander Kirk. Kirk lo informa che gli Stati Uniti attendono con ansia che l'Italia dia una prova del proprio ritrovato spirito democratico, organizzando al più presto una consultazione popolare: che non sia però un'elezione politica generale, ma un ampio turno di elezioni locali.

Ma questo loro orientamento è rafforzato dai messaggi che i dirigenti di Washington ricevono da De Gasperi. Due giorni prima della visita di Kirk a Parri, il diplomatico americano si è infatti incontrato con l'ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Alberto Tarchiani, in vacanza a Roma. E questi, parlando a nome di De Gasperi, gli ha detto esplicitamente che "il popolo italiano non è sufficientemente preparato o educato ad esprimere il proprio desiderio attraverso delle elezioni politiche nazionali", e che quindi queste "devono essere rimandate, altrimenti ne benefice­ranno solo i comunisti".

L'intervento di Kirk su Parri, nonostante Г enorme peso che in quel momento ha un "consiglio" americano, non risolve tuttavia il problema. Le sinistre, infatti, insistono per elezioni generali a novembre: ma questo slogan, specie nel Centronord, ha una presa notevole sull'opinione pubblica. Ed ecco allora che il 6 settembre Dean Acheson, in quel momento sottosegretario di Stato, invia a Kirk un nuovo messaggio, in cui lo invita ad incontrare nuovamente Parri e a dirgli in maniera più esplicita "che il punto di vista americano è che le elezioni comunali debbano precedere quelle nazionali e debbano cominciare subito". Cinque giorni più tardi, l'11 settembre, Kirk ritorna dunque al Viminale, dove allora aveva sede la presidenza del Consiglio. E Parri, ascoltata quella che ha tutti i caratteri di un'ingiunzione, gli comunica che il giorno successivo ne informerà il Consiglio dei ministri.

Questa riunione ha un carattere meno drammatico di quello che ci si sarebbe potuti attendere: la realtà infatti è che tutti sentono che non è possibile dire di no agli americani, i quali (ed anche questo nessuno lo ignora) hanno potenti alleati interni. Le sinistre mettono quindi agli atti le loro obiezioni, sottolineano il carattere indebito delle pressioni di Washington (Togliatti che non dimentica mai il suo stile piemontese protesta "per gli interventi degli alleati, non giustificati dallo Statuto dell'Italia"), ma accettano di fatto di rinviare alla successiva primavera ogni progetto di consultazione popolare e sottoscrivono il principio che le elezioni locali precedano le politiche.

All'inizio del 1946, mentre si avvicina il momento del primo turno delle elezioni amministrative (fissato per il 10 marzo) si pone però anche il problema del modo della decisione istituzionale. A dispetto del decreto luogotenenziale del 26 giugno 1944 — che ha esplicitamente affidato questo compito all'Assemblea costituente — tutti i gruppi moderati ed i monarchici ritengono che la questione non debba considerarsi chiusa, anzi che sia possibile sostituire questa scelta assembleare con una scelta popolare.

Se, su questo punto, lo scontro, nelle settimane successive, npn assume caratteri particolarmente violenti è perché, anche a sinistra, non sono pochi coloro che, considerando la vittoria della Repubblica una cosa certa, preferiscono che essa appaia a tutti non come il risultato di un patteggiamento politico di vertice, ma come un'espressione diretta della volontà popolare.

Finita la fase preliminare, non rimane, dunque, che attendere il due giugno 1946, il giorno in cui, cioè, 28 milioni di italiani sono chiamati a votare per decidere la composizione dell'Assemblea costituente e la permanenza o meno dei Savoia alla testa dello Stato.

Il quadro politico in cui ci si avvia a questa data è stato determinato, in larga misura, come si è visto, dal prevalere delle tesi moderate. Ciò nonostante, la vittoria della Repubblica appare, a tutti, certa. Troppo vivo infatti è il ricordo dei legami che hanno unito, per oltre vent'anni, i Savoia al fascismo, e troppo deboli ed incolori sono gli uomini che rappresentano la Corona, per dare credito all'ipotesi di un successo monarchico.

È proprio per arrestare questo processo che il Quirinale decide, all'inizio della primavera, di giocare tutto su una mossa a sorpresa: l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, che viene annunciata il 9 maggio 1946.

I calcoli che stanno dietro a questa decisione sono due. Il primo — facilmente intuibile — è di migliorare l'immagine elettorale della Monarchia. Il secondo è più complesso e mira ad alterare la situazione di teorica parità esistita fino ad allora, tra le due soluzioni istituzionali. Attraverso la trasformazione del luogotenente (figura per definizione provvisoria) in un re i consiglieri della Corona contano infatti di dar vita ad un fatto compiuto — l'esistenza di un potere e di una continuità costituzionale legalmente stabiliti—valido non solo dal punto di vista propagandistico, ma anche come elemento capace di pesare sugli avvenimenti immediatamente successivi.

Sono queste considerazioni che, nel momento in cui viene conosciuta ufficialmente l'abdicazione di Vittorio Emanuele III, creano una situazione di forte tensione all'interno del Consiglio dei ministri, che ha come protagonista Palmiro Togliatti. Il quale ("per una volta", nota nel suo taccuino Pietro Nenni) abbandona la sua abituale posizione di prudenza per sostenere una tesi giuridicamente ineccepibile. Nella primavera del, 1944, spiega infatti il leader comunista, il re non aveva delegato al figlio una parte dei suoi poteri, ma aveva compiuto un atto definitivo ed irreversibile di rinuncia alle proprie prerogative.

E questa rinuncia faceva parte del compromesso raggiunto dopo un lungo negoziato con i partiti antifascisti. Data la natura bilaterale dell'atto, egli non aveva quindi nessun diritto di riassumere ora i propri poteri, sia pure per la sola abdicazione, cambiando in tal modo, unilateralmente, il quadro giuridico fissato due anni prima. Stando così le cose, il governo, dopo aver dichiarato illegale l'abdicazione di Vittorio Emanuele HI, doveva annunciare che De Gasperi aveva assunto le funzioni di capo provvisorio dello Stato.

Nessuno, a cominciare da Togliatti, insiste però su questa impostazione. Uno scontro infatti, potrebbe giovare solo ai monarchici. Mentre la data delle elezioni dista, ormai, meno di quattro settimane.

I primi dati sui risultati del plebiscito istituzionale giungono al ministero dell' interno nella serata di lunedì 3 giugno, e confermano solo in parte le previsioni di una larga "vittoria repubblicana. Anzi, durante la notte, vi è perfino un momento in cui la monarchia si trova in leggero vantaggio. Nella mattina del 4, però, i voti provenienti dal Nord riequilibrano la situazione, e alla fine della giornata la soluzione repubblicana appare quindi sicuramente vittoriosa, con un margine di circa il dieci per cento di voti.

La Corona, e le correnti monarchiche, accettano le prime notizie della sconfitta con distacco, e perfino con eleganza. Mentre il ministro dell' interno, Romita, comunica, il 5, i voti noti fino a quel momento (12 milioni 182 mila per la Repubblica, 10 milioni 362 mila per la Monarchia), De Gasperi ha infatti uh incontro cordiale con Umberto di Savoia: alla fine del quale da ordine al ministro della marina di mettere a disposizione del Quirinale l'incrociatore "Duca degli Abruzzi" per il trasferimento a Lisbona.

Adattato da A. Gambino

Parole e nessi di parole da ricordare:

abdicazione del re — отречение короля от престола

assetto nazionale — государственное устройство

Casa Savoia — Савойская династия

dare le dimissioni — подать в отставку

firma dell'armistizio — подписание перемирия

elezioni politiche — выборы b парламент

elezioni amministrative — выборы в местные органы власти

luogotenente — наместник (короля).