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Metafore animalesche

Dalle similitudini dell'epopea fino ai proverbi della plebe, è un continuo confrontare gli uomini alle bestie.

Se siamo tardi d'ingegno, ci chiamano buoi; se sudici e corpulenti, porci; se villani e selvatici, orsi; se ignoranti, asini. Chi ripete i discorsi altrui è un pappagallo; chi riproduce le altrui azioni è una scimmia; chi esercita un poco di usura a sollievo dei disperati, è una sanguisuga. Patite le distrazioni? vi danno dell'allocco. Siete un uomo di tutti i colori? vi dicono camaleonte. Siete astuto? oh, che volpe! Siete vorace? oh, che lupo! Oh, che talpa, se non vedete le cose più chiare! Oh, che mulo, se siete pertinace! Oh, che gufo, se aborrite la luce della verità! La donna iraconda e vendicativa è una vipera, la volubile è una farfalla, civetta la lusinghiera... .

Ma qui osserverà taluno, non si tratta che di quaetà viziose. Oh!... la forza con generosità (e anche senza) ha l'eterno suo modello nel leone. La fedeltà e Г amicizia hanno per tipo inevitabile il cane. Gli amanti teneri si dicono colombe; gl'ingegni sublimi aquile; i buoni poeti cigni. Chi ha acuto Г occhio della mente, vien paragonato alla linee; l'uomo mansueto si onora col titolo di agnello; chi fa risparmio per i futuri bisogni, si chiama provvido come la formica; perfino l'eclettico è un'ape che succhia il miele da ogni fiore. Insomma stimo bravo chi mi sa trovare un individuo solo che in bene o in male, non rassomigli a tré o quattro bestie almeno.

Compiti

1. Traducete il testo, trovando una metafora animalesca russa equivalente a quella italiana.

2. Fate delle frasi con le suddette metafore animalesche.

Unità 10

Domenico Rea

Il ragazzo ritrovato

Ero appena salito in un filobus e mi ero fatto il biglietto, restando in un angolo della piattaforma posteriore, quando fui colpito dalla presenza del ragazzino.

Poteva avere al massimo una decina d'anni, ma riproduceva alla perfezione uno dei suoi simili adulti: quei giovinastri tra i diciotto e i venticinque anni dall'aspetto irritato e fiero. Fu questo particolare a colpire la mia attenzione. Il ragazzo indossava un «blue jeans» duro aderente alle cosce, con su un blusone da marinaio dibasso porto, col colletto rivoltato di panno rosso. Roba che si vende a Forcella e che, messa indosso a un qualsiasi altro ragazzo, sarebbe apparso come un travestimento. L'abito del mio ragazzo era invece una vera e propria tenuta da lavoro, con le macchie e la patina di polvere della fatica e che diveniva vero e autentico per una ragione assai più precisa e intima: non stonava col ragazzo che ci stava dentro, con quel volto di dieci anni che nessuno avrebbe potuto definire «viso» da fanciullo. Uno di quei volti infantili che hanno già visto molte cose o tutto e che si pensa debbono venire presto schedati nell'archivio di qualche riforma­torio. La mia ultima impressione al suo destino fu di immagi­narmelo prima o poi nelle mani della legge.

Il corpo, sebbene fosse nascosto dalla blusa e dai pantaloni riconfermava il mio pensiero. L'attaccatura delle cosce аll'inguine doveva rassomigliare a quella magra e rachìtica dei pupazzi. Il petto invece riempiva il blusone e con quella testa arcuata e con quella faccia astuta in cui gli occhi piccoli e biondastri non avevano un solo briciolo di luce ne faceva un essere indipendente, già capace di difendersi e dì offendere fino al sangue.

Egli stava seduto e guardava indifferentemente i passeggeri che aumentavano di fermata in fermata, con l'aria annoiata e di sopportazione di chi aspetta che finisca presto. Le punte delle sue scarpettine non riuscivano a toccare il pavimento della vettura. Salita una vecchia borbottante, il ragazzo la invitò con rauco dialetto ad accettare il suo posto. Restato all'impiedi, per trovare un po' di sfogo venne a rifugiarsi sulla piattaforma posteriore. Non gli toglievo gli occhi da dosso e se la gente mi spingeva cercavo di stargli vicino. Finii per trovarmi addosso a lui e lui nello spazio delle mie braccia. Voltò la testa verso di me e dovette trovarmi antipatico, di una particolare antipatia: giudicatrice e indifferente. Mi guardò di nuovo con una punta di sfida-come per dire: «Mi prendi per un bambino?» E subito dopo - glielo vidi lampeggiare negli occhi — «e per un pezzente, per vino di quelli che cercano nelle strade».

Tuffò una manina nella saccoccia destra del blusone e ne estrasse una manciata di monete. Una manciata! Come chi ha denaro in tasca e non lo conta e non ha bisogno di contarlo perché è avvezzo e non lo considera. Assicuratosi che lo guardavo e fingendo la massima indifferenza si mise non a contarlo, ma a riordinarlo secondo il taglio. Ne estrasse prima le venti e le cinquanta lire che ficcò nella saccoccia sinistra del calzone, poi le cinquecento, spiegandole e stirandole per bene e concalma, — tanto per far passare il tempo — e poi tre biglietti da mille.

Pensavo che non poteva essere denaro raccolto con le elemosine perché la gente non dà mai biglietti di grosso taglio; né denaro prelevato per commissioni ricevute da un parente o da un qualsiasi adulto perché glielo avrebbero dato un poco più ordinatamente. Era denaro rubato. E a chi? Era denaro vinto ad un gioco d'azzardo da marciapiede? No. Il ragazzo doveva stare negli affari e da tempo. Particolare importante quello di essersi fatto il biglietto. Se avessi dovuto dire il mio pensiero sull'origine di quel denaro credo mi sarei allontanato di poco dalla verità, dicendo che il bambino era andato a vendere merci, merci sue, raccolte per strada o soltanto comprate a basso prezzo per rivenderle a un prezzo maggiore. Mentre così sospettavo lui aveva terminato l'operazione, non dimenticando nel ficcare il denaro in fondo alla saccoccia di spiare sul mio volto l'effetto che mi aveva fatto quel suo mucchio.

«Ora» sembrava dirmi «ora che pensi di me? Non lo sospettavi, eh! Va! io mi sento cento volte più uomo di te». E forse era vero. Infatti mi trascurò, ficcò le mani nelle tasche e si mise a fischiare da uomo che ha pensieri, affari, guai, senza sorridere, senza che gli scappasse un solo gesto, indizio dei dieci o dodici o tredici anni che avesse.

La mia fermata era prossima e con piacere mi avvidi che sarebbe disceso anche lui. Mi lanciai di buon passo nel vicolo della mia camiciaia perdendolo di vista, ma lui mi raggiunse e mi sorpassò. Mi si mise davanti, voltandosi con astuzia per vedere se lo osservassi ancora. Vicino ad un caramellaio si limitò a dare una occhiata al banco e ai ragazzi che lo circondavano dando non so se un pugno o un pizzico ad uno di essi, che si voltò pronto ad una ribellione che gli dovette passare subito, misurando il mio ragazzo « nella sua giusta misura». Infatti, per bèffa, il mio ragazzo gli fece un prepotente segno di star zitto, fermandosi, pronto ad ogni sfida senza per altro dimenticarsi di me, come per dirmi: «Vedi chi sono! Questi qui (i ragazzi) li ho tutti per fatti». Passò un cane rasente il muro e lui gli diede un calcio. Poi entrai nel basso della camiciaia e non pensai più a lui.

Uscii una mezz'ora dopo e il ragazzino stava appoggiato al muro del vicolo. Sfumacchiava. Al fianco gli stava un altro ragazzo affatto inferiore a lui nell'aspetto di giovinastro. Il mio ragazzo gli doveva dire qualchecosa che l'altro ascoltava senza interesse, come i guappi di fama riconosciuta. Io pensai che mi avesse aspettato a bella posta per farsi vendere fumare e dissi tra me: «Non ha proprio nulla del bambino, proprio nulla. Forse quando dorme... Chi lo libera da quella faccia? Chi gliela potrebbe rifare fresca, rosea e innocente? » Finsi di non vederlo e tirai diritto per la mia strada. Poi mi sentii toccare ed io mi voltai di scatto dicendo:

— Che vuoi? — II ragazzo mi guardò fisso, con gli occhi bene aperti, ben spaventati. Ed io ripetei: — Si può sapere che cosa vuoi? — II ragazzo estrasse dalle tasche dei pacchetti di sigarette straniere. — Non fumo — dissi. Poi tesi una mano, presi un pacchetto e domandai: — Sono con la segatura?

Il ragazzino mi guardò per un attimo con occhi tondi e sfavillanti. Riprese il pacchetto, lo scartocciò e spinse fuori abilmente tre sigarette. Poi, così aperto, mi ridiede il pacchetto perche io odorassi il buon tabacco americano. Non contento, prese una sigaretta, la stracciò (e questo il nome del suo gesto) sbriciolò il tabacco nelle mani e lo buttò per terra dicendo:

— È roba genuina — io non tratto la roba di Forcella.

— Non far storie — dissi — dove la rubi?

— Signurì1, non parlate così, altrimenti non facciamo più l'affare e vi dimostro che sono un uomo onorato.

— Non mi far ridere.

— Signurì, voi fate troppe chiacchiere e io non ho tempo da perdere. Le volete o no le sigarette? (E rabbonendosi) — Io abito qua, mi conoscono tutti, domandate di Ciruzzo e vi portano fino a casa mia. Io vendo roba buona genuina, perché ci tengo a conservare i clienti. Siamo carte conosciute.

Allora dissi:

— Va bene — stupefatto del suo parlare. E aggiunsi: — Le prendo. Voglio però le Carnei. Queste non mi piacciono — avver-tendo una sincera pietà per quel ragazzo-mostro; per la società che li partoriva come aborti di natura spontanei e inevitabili. A vent'anni sarebbe stato se non un uomo fatto, uri uòmo deluso, amaro, triste, che aveva solo da sopportare una ripetizione infinita ed estenuante di quanto aveva già sperimentato, provato scontato, subito. Sì, come tanti e tanti altri che vanno in giro per queste strade; che a diciotto anni sono già mariti, già padri, già uomini nei guai con i capelli ritti sul capo: con quelle ragazze-mogli-madri al fianco, un poco indietro nel camminare, già sciupate, straziate, scolorite, svenate nel fiore di giovinezza.

Il ragazzo intanto aveva infilato l'altra mano nella tasca capiente per cercarvi le Carnei e la ritirò piena di... formelle (bottoni) di diverse forme e colori, di un fischietto, di pallini per fionde di uccelli, di pietre lisce e piatte di mare, tenendole con la stessa serietà con cui prima aveva tenuto il denaro. Deluso di non aver trovato le sigarette che cercava mi disse che sarebbe andato a prenderle a casa.

— Non fa niente — dissi. — Prendo queste... — ora che lo avevo ritrovato in tutta la sua infanzia tra quei bottoni;colorati in quelle mani sporche.

Adattato da D. Rea

1 Signurì! — Signore! — (dialettale)