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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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È tempo di sognare

Alessandro Coppola

Non si sa di chi sia la colpa. Forse della vita, dei semplici eventi. O semplicemente tua, ma cerchi di non pensarci: è sempre meglio prendersela con qualcun altro, aiuta a stare meglio. Ma non aiuta a superarlo, quello smarrimento. E ti accorgi di non avere più tempo per le emozioni, le sensazioni assaporate lentamente, la vita vissuta. Comincia la giornata, e già sai a cosa devi pensare: il lavoro, devi farlo, e possibilmente bene. Quelle relazioni sociali, più o meno forzate: curale, ma senza farti notare troppo. Quegli imprevisti che diventano sempre più prevedibili: un teppista all’incrocio, un commesso poco gentile, qualcuno che fa il suo lavoro, ma non così bene. No, non c’è proprio tempo per nient’altro, in questa giornata. Fino a che non si conclude, la tua giornata, e vuoi darle il giusto congedo. Non ti serve molto: un cuscino, quella luce che filtra dalla finestra, e magari un led rosso. Quella luce di un televisore, una radio, o della tua sveglia luminosa. Quella che, da quando esiste, il buio non è mai del tutto buio. Ma a tutto questo non fai nemmeno più caso, perché a quell’ora tutte le cose si somigliano. Ma non i tuoi sogni, quelli cambiano sempre forma. Sei solo con te stesso, il momento è propizio. Anzi no, qualcuno dorme accanto a te: ma che importa, i sogni non fanno nemmeno rumore. Tempo di bilanci e di progetti, direbbe qualcuno. Ma non è più un giovanotto, o un uomo di mezza età. Non è più così, ed è colpa della vita. È sempre colpa di qualcun altro. Se la frenesia non ti lascia vivere, prenditi più tempo per sognare. Ti giri su un fianco, e pensi di aver fatto un buon lavoro, ma potresti averlo fatto meglio. Ti giri sull’altro fianco, e il pensiero va a quei piacevoli cinque minuti in compagnia. È davvero una bella persona: chi sa, magari domani saranno dieci. E sorridi. Ti giri e ti rigiri ancora, le 23.45. Quanti sogni ancora da fare. Ma non importa, hai ancora una vita avanti per rimediare. Una vita lunga una giornata.

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Buonanotte Nobile Signora!

Nicola Maria Porcari

Le lancette dei secondi avanzano, mancano sessanta giri alla Mezzanotte. Altra giornata di m... Ma è l’ultima. Domani cambio registro. Delusione e rabbia accompagnano lo scandire del tempo negandomi il sonno. Anni e anni di sacrifici per nulla! La politica, le lobbies, i compromessi sempre meno leciti, il servilismo, continuano a rendermi la vita difficile. Sugli organi di stampa e nei salotti buoni tutti sembrano strizzarmi l’occhio. La realtà, però, è ben diversa: quando si tratta di fare sul serio tutti mi evitano. «Tu non sei nessuno, qui in tuo nome non possiamo offrire di più.» Parole pronunciate con naturale indifferenza dal carnefice di turno e che ora rotolano come massi nella mia povera testa. Ancora una volta sono stata illusa, ignorata. Hanno ferito il mio orgoglio. Sono di nuovo a leccarmi le ferite insieme al mio ormai stanco compagno di viaggio di nome Ottimismo. E mi consolano quelle mosche bianche chiamate Eccezioni. Da domani però si cambia. Ho bisogno di staccare, non ho alternativa. L’ansia e la depressione stanno consumando le mie ultime energie. È come se rivedessi, inesorabili, le immagini crudeli di assunzioni o promozioni mancate, di aumenti di stipendio negati. Penso alla gente, davvero tanta, che credeva solo in me e ora soffre perché, senza speranza alcuna, si trova a competere con chi ha i «Santi in Paradiso» o con chi semplicemente s’offre e solo così riesce a ottenere qualcosa. Questione di apostrofo... E io impotente, indifesa, destinata a essere annullata, annientata da chi ha fame di potere e si nutre solo d’ipocrisia. Maledetta Raccomandazione, continua a umiliarmi. Vogliono costringermi a cederle la mia identità. Non lo permetterò. Basta. Devo dormire, devo sognare. Devo riuscire a proiettare nella realtà il sogno di una vita: rendere giustizia al merito. Il tempo dovrà premiare i miei sforzi e anche l’individuo più cinico, alla fine, dovrà credere in me. Intanto è Mezzanotte. Ah, lo avrete capito, mi chiamo Meritocrazia. Sogni d’oro!

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Intersezioni

Cristina Martinelli

Ore 00.00. Stiamo aspettando davanti al parcometro del «lunga sosta» di Fiumicino che l’orologio digitale scatti sullo 00.01. L’aereo in arrivo da Londra è atterrato poco prima in perfetto orario, abbiamo recuperato i nostri bagagli, con quella leggera apprensione che ci assaliva ogni volta che ci trovavamo nelle vicinanze del nastro trasportatore. Da quando, al ritorno da Lisbona, non li avevamo ritrovati. Erano rimasti impigliati in qualche carrello dello scalo di Barajas. Lì dove, qualche mese prima, erano rimasti impigliati, l’uno nell’altro, anche i nostri sguardi. Ore 23.20. Dall’oblò si intravedono le luci di Roma. La signora accanto a me sta facendo un cruciverba senza schema. Anche a me piace il cruciverba senza schema, alla ricerca delle possibili intersezioni tra le parole. Ma per non rischiare troppo uso la matita e la gomma. Ore 23.11. Ci portano uno snack. Dolce o salato? Io salato. Tu salato. Ai bambini seduti davanti a noi dopo il salato danno anche il dolce. Li invidiamo un po’ perché in fondo anche noi siamo due bambini. E lo siamo stati credendo in un sogno. Questa mattina quel sogno ha preso forma a Hyde Park. Ci siamo insaccati nelle due sedie a sdraio a strisce verticali verdi e blu. Folate di sole ci accarezzano. Tre sterline di felicità, l’affitto delle sedie a sdraio. Sbriciolo il guscio delle uova sode che abbiamo preso al buffet dell’hotel. Ore 23.01. Guardo il tuo profilo accanto a me e penso che sono passati velocemente questi tre giorni. Prima di partire avevi detto che mi avresti parlato e che lo avresti fatto quando l’aereo sarebbe decollato. Ma al check-in ci assegnano posti su due file diverse. Sei seduto davanti a me ad ascoltare i motori che dopo lo sforzo del decollo mollano la potenza. Quando ci stabilizziamo in quota incontro il tuo sguardo. Non abbiamo parlato, non lo avremmo fatto più. Ma so quello che avresti voluto dirmi.

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Omaggio a un sorriso

Roberta Landini

È ormai sera, sono quasi le 23.00, e gli occhi non riescono più a trattenere tutte le lacrime, cerco a stento di capire come certe cose possano accadere. Ripercorro lentamente e passo passo l’accaduto. Quando questa mattina ho girato la chiave per avviare la mia auto ho pensato potesse essere una bella giornata: clima dolce, un bel sole, solamente ancora un poco pallido e nessun problema particolare all’orizzonte. Sono le 8 passate e sto facendo i conti con la mia «routine quotidiana». Accendo la radio e trovo il mio cd preferito già inserito nella fessura. Parte d’incanto una delle canzoni che preferisco, non so il titolo esatto, per me è solamente «lei» di Laura Pausini. Meccanicamente i miei pensieri vanno a una lei precisa, della quale avevo parlato con un collega pochi giorni fa. Una lei che rivedo in un sorriso e in un volto che ogni volta mi rallegrano dall’altro capo del telefono. Rallento, cerco il cellulare in fondo alla mia borsa e inizio a scriverle un messaggio: «Ciao, stai meglio? ti posso chiamare?». Una pausa, poi... opzioni... INVIA. Ripongo lentamente il telefonino sul cruscotto della macchina e riprendo la guida tenendo lo sguardo quasi fisso sul display. Un senso di irrequietezza e di smarrimento mi avvolge e sospiri continui si susseguono uno dietro l’altro dandomi l’illusione momentanea di respirare meglio. Ora trattengo il fiato e cerco di concentrarmi sulla guida, sono arrivata a destinazione, parcheggio la mia auto, salgo le scale quasi di corsa. Entro in ufficio, mi siedo alla scrivania e rimango immobile, indecisa sul da farsi, quasi in attesa, fino a quando l’incantesimo si spezza e una voce interrompe i miei pensieri per dirmi che lei non c’è, ora, e non ci sarà più, per sempre. Nessun saluto, nessun sorriso, nessuna possibilità di dirle addio, per me nessuna seconda occasione. Ora so che è stata una pessima giornata, ho mille rimorsi e una sola certezza: niente ormai sarà più come prima.

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Cinquantanni

Laura Campanella

Lentamente sto camminando verso casa. Sono appena uscita dalla riunione con i miei ragazzi. Sono una caposcout e il lunedì ci si ritrova per organizzare le attività. Ormai ho quasi cinquantanni, cosa ci faccio in un gruppo di diciottenni? Quando lo scorso anno sono rientrata per dare una mano a causa della defezione di alcuni educatori non ho riflettuto sulla mia età e sulle difficoltà che avrei incontrato. Sono partita lancia in resta come al solito, convinta delle mie possibilità e delle mie forze. È stato un anno bellissimo, ricco di emozioni, di novità, di sensazioni dimenticate e ora ritrovate. Sono tutti ragazzi fantastici, profondi, ricchi di valori, intelligenti, generosi, altruisti. Mi hanno fatto vedere una gioventù che credevo persa, a furia di leggere sui giornali di rapine, droga, alcolismo, vandalismi e violenze. Nei bivacchi con lo zaino sulle spalle, ho messo anche la mia nuova pazienza, la mia esperienza e la mia gioia di stare con loro. Ho rivisto l’alba cantando, le stelle vicino ai laghi sulle Alpi marittime a notte fonda, le marmotte correre sui pendii nel sole di agosto. Ho rivisto sorrisi e braccia tese, volti sudati ma soddisfatti nella fatica di un cammino, ho comunicato pensieri e percepito sentimenti, ho condiviso il pane e il formaggio stantio, mi sono lavata nelle acque fredde dei torrenti senza rimpiangere la doccia di casa. Ora traccio un bilancio e penso al futuro, al prossimo anno che mi aspetta, a tutti i prossimi lunedì di riunione, ai progetti per la loro crescita personale e alla scelta che ho fatto quando mi sono rimessa il mio fazzoletto scout: sto facendo una fatica dannata, lavoro, ho una famiglia, una casa da tenere in ordine, una mamma anziana, ma per nulla al mondo lascerei i miei ragazzi. Il passo accelera, è tardi, devo ancora mettere a posto la cucina e preparare la caffettiera per domani mattina. La sveglia è alle sette. Mi godo il profumo del mare, gli ultimi metri prima del mio portone. La vita è sempre una sorpresa, anche a cinquantanni.

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Deadline all’italiana

Irene Russo

È quasi mezzanotte. Manca un’ora. Devo spedire l’abstract per la conferenza, devo mettere insieme cinquecento parole entro mezzanotte. Sono a duecentotrenta e non so cos’altro scrivere. Fra venti minuti, dopo un copia-e-incolla selvaggio, sarò a settecento e mi toccherà limare le congiunzioni e togliere gli avverbi. Ho i dati, però. Non tutti, una parte. Ma si capirà che ho i dati, che ho il venti per cento dei dati che dovrei avere alla fine, ma che ragiono su una base fondata. Forse se ne accorgeranno che ho appena il dieci per cento dei dati sui quali basare un’ipotesi. Lavorare sul- l’impegno assertorio delle frasi, forza. Far capire che le cose stanno così senza dire che le cose stanno così. Ma perché ieri sera sono uscita invece di starmene a casa a finire l’analisi dei dati? Sì, ma anche standoci tutta la notte non l’avrei finita. Che importa, chi se ne accorge. 28 minuti. Far capire che so più di quello che dico, essere allusiva. Togliamo una frase. Quale frase è più inutile? Vabbe’, sono tutte inutili. La tolgo a caso. «In questo lavoro un’analisi esaustiva...» Potrei almeno togliere l’aggettivo esaustiva. Che sfacciata. «Considerata la copiosa bibliografia al riguardo...» E chi l’ha letta. Tomazzi di 300 pagine. «Pertanto appare evidente che...» Appare evidente che dovrei smetterla di scrivere in un’ora abstract su cose che ho pensato ma non ho effettivamente iniziato perché erano in fondo alla lista. Dopo la colazione al bar. Dopo il caffè post-pranzo. Dopo l’aperitivo delle otto. Dopo la birra delle dieci. Non è semplice concentrare tutto lo sforzo, piuttosto che mettere insieme le proprie idee giorno dopo giorno. Le idee non sono cumuli di argomenti ma piccole scosse telluriche dell’ovvio. E viene prima l’idea dell’idea che l’idea vera e propria. Mezzanotte. Inviato. Che stress. No, ora non ce la faccio ad andare a letto. Esco a bere qualcosa. Anzi no, esco e mi ubriaco. Me lo merito. È quasi un’ora che lavoro!

Ore 24

Una luce nella notte

Donata Borgini

Riaffioro alla realtà: è mezzanotte. Pian piano la mente prende possesso del corpo, sento un vociare troppo alto nella stanza e capisco che è la televisione: mi sono addormentata mentre stavo guardando un film. Sono infreddolita. Di fianco a me, sul divano, mio marito dorme ancora. Mi alzo, controllo che i ragazzi siano a letto, apro la porta di casa e mi avvio al piano di sotto. È l’azione più pesante, ma nello stesso tempo più piacevole della lunga giornata. Entro nell’appartamento e mi dirigo verso la camera da letto dove c’è mia mamma malata di Alzheimer da molti anni. Sono già passate due ore dall’ultima volta che le ho cambiato posizione nel letto per evitare le piaghe da decubito. Avvicino al letto il carrello su cui ho appoggiato tutto l’occorrente per lavarla e prepararla alla notte. È strano: durante il giorno non parla, non riesco più a catturare il suo sguardo, perché è perso in un mondo suo, è lontana da me, ma la notte è una magia. Capita qualche rara volta, ed è un dono immenso, che al mio «ciao mamma» lei risponda «ciao nina, sei qui?», e che mi guardi negli occhi, occhi pieni d’amore, occhi antichi, uno sguardo che dimentichi perché nei lunghi anni della malattia li vedi sempre spenti, uno sguardo carico di infinita dolcezza, un viso che mi ripaga, se mai ce ne fosse bisogno, di tutte le fatiche, le pene di vederla persa in quel letto, un corpo svuotato della memoria, della capacità di interloquire. In quei pochi attimi, che sono come stelle cadenti, così fuggevoli, io tocco il cielo con un dito, ritrovo la mia mamma, la meravigliosa donna che è stata e sono felice. Un istante: è già ripiombata nel suo mondo inaccessibile a me, e così comincio a lavarla e a cambiarla per la notte. Arriva mio marito, che l’adora e inizia a parlarle, ma lei non c’è già più. Io gli racconto che è stata con me quella notte: lui sa a cosa alludo, è contento e le schiocca un bacio sulla fronte. Risaliamo a casa nostra e mentre mi sto per addormentare, ripenso al suo sguardo, alle sue

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pochissime parole e spero in cuor mio che in qualche futura notte a venire, io possa ancora vedere i suoi occhi incrociare i miei e sentire le sue dolci parole.

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