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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Piccoli imprenditori crescono

Francesco De Cesare

Sono le 20 ed è venerdì. Sono ancora allo studio con un micidiale rompiscatole, ma vorrei tanto essere a casa a godermi un meritato riposo. Mi ha chiesto di riceverlo a quest’ora perché «prima non posso: devo lavorare». Io no, invece. Lui parla, ma io non ascolto. So già cosa mi vuole dire, prima che lui parli, prima che lui lo pensi. Il mostro l’ho creato io. Quando me lo hanno presentato, il figlio minorenne aveva preso trenta multe in trenta giorni per aver guidato senza casco. Gli ho risolto il problema: poco importava che, dinanzi a un esterrefatto comandante dei vigili urbani, avessi dipinto il padre come un incapace e il figlio come un mentecatto. Da quel momento sono il suo eroe. Mi investe di qualsiasi sciocchezza e, di solito, non mi paga. Si definisce un imprenditore. In realtà è un ex artigiano che si è messo in proprio, ma che è incapace di gestirsi. Oggi si è portato il suo commercialista, un tipo sveglio che mi blandisce e cerca di presentarmi l’ennesimo disastro come un affare sicuro che circostanze imprevedibili hanno trasformato nella solita Caporetto. Stavolta ha costruito un capannone industriale. Ha lavorato giorno e notte con cinque operai anticipando per intero le spese e ora è sotto di centomila euro. Chi lo ha truffato ha venduto tutto ed è sparito. Adesso vorrebbe giustizia. Non che abbia torto, ma un giudice ci metterebbe anni a dargli ragione e comunque difficilmente rivedrebbe i suoi soldi. Dovrebbe calmarsi un po’, dare un paio di schiaffi al figlio, cambiare commercialista e magari tornare a fare l’artigiano, come gli ho detto più volte in amicizia davanti a un caffè. Ma lui non ci sente, è troppo affezionato al suo ruolo di vittima. Ora che si è sfogato per bene ha smesso di parlare e attende il mio «responso». Sono brutale, più del solito. Tace e abbassa lo sguardo. Subito mi pento e accenno a consolarlo, ma mi precede. È stanco – mi dice – e vuole raggiungere la famiglia al mare. Lunedì proverà a contattare il truf-

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fatore per tentare di farsi pagare con le buone, magari offrendo un generoso sconto. Li accompagno entrambi alla porta. Rimaniamo d’accordo che mi chiamerà la prossima settimana. «Poi, appena avrò i miei soldi ci dobbiamo incontrare perché ti devo ancora pagare» è la sua promessa e il suo congedo. Faccio finta di credergli e questo sembra ridargli fiducia. E poi dicono che gli avvocati...

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All’ora di cena

Clemencia Cibelli

... Certo, non è facile... tu non riesci a capire che cosa è effettivamente la depressione, c’è quella forte, c’è quella leggera, non che sia una più intensa dell’altra, sono forme diverse, diverse motivazioni... No, non capisco, la depressione è quella malattia che ti prende alla gola, un malessere che si concretizza in gola, in un bolo di indifferenza e apatia. Non voglio conoscere le motivazioni scientifiche, semplicemente non voglio vivere. Mentre scrivo guardo la coda del mio cane, si muove con delicata armonia, sembra abbia capito, o forse capisce davvero, perché gli animali non soffrono di depressione? Balle, anche loro ne soffrono, recepiscono tutti gli stati d’animo, leggono l’aria, gli umori degli umani. Patiscono gli umori umani, come dire, sono umori-umani-patici, così, a loro volta cadono in depressione, ma riescono a guarire in un baleno, grazie alla miracolosa carezza del loro amico, del loro così detto padrone, ma chi è il padrone? Cave canem... no, cave uomini. Tu resti a casa? Certo che resto a casa, cosa dovrei fare? Andare a caccia di compagnia umana, un’amica, un amico, giusto per non confrontarmi con me stessa, per non rileggere il ripetitivo programma della serata, whisky, sigaretta, un po’ di televisione, silenzi, una carezza al cane, una telefonata. La ricerca di solidarietà restituisce altre solitudini. La mano è bagnata dalla lingua dell’amica pelosa.

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Filù mi aspetta a casa

Milena Nebbia

Filù mi aspetta a casa, dietro la porta. Tutti i santi giorni. Sempre alla stessa ora. È stata un regalo di Matteo – contro la depressione – ma alla fine la tengono i miei perché sto fuori troppe ore al giorno per lavoro. L’ho chiamata Filù, come diminutivo di Filumena, che è sempre stato un nome che mi piace, ma è troppo lungo e, come diceva Troisi, quando hai finito di pronunciarlo t’è già scappata chissà dove. Lei aspetta dietro la porta perché sa che io tutte le sere passo a salutarla e a farla giocare, ché mia madre alle otto è troppo stanca per raccogliere e lanciare palline. Lei sente l’ascensore e si mette dietro la porta. Io entro, poso la borsa e lei è già lì: mi guarda con un musetto disarmante inclinando la testina di lato cosicché, anche se sono distrutta, anche se il capo mi ha detto di rifare la stessa inutile lettera per quattro volte, anche se uno in treno mi è passato con il trolley sui piedi, anche se la vigilessa mi ha detto che mi sono fermata con la bicicletta nel punto sbagliato, anche se come tutti i giorni mi dico che cambierà, che da domani cambierò la mia vita... Nonostante tutto questo, che la mia vita cambi o no, lei è lì. Dunque poso la borsa, bevo un goccio d’acqua, saluto mia madre: come va? Bene, però tuo padre è il solito e bla bla bla... Poi, come ogni sera, vado in cerca di un topino di pelo fucsia: è il suo preferito, se lo mangia, lo trascina, gli fa gli agguati. Il problema è che scompare ogni volta e tocca cercarlo dappertutto. Mia madre sostiene che lo fa apposta. Dice anche che quando si accorge che è scomparso va a chiamarla con un miagolio strascicato e lamentoso che muoverebbe a pietà anche un sasso. Alla fine lo trovo sempre, la casa quella è, tre stanze. Finisce quasi sempre sotto la credenza, allora mi stendo per terra e lo recupero con il manico della scopa. Lo prendo, mi raddrizzo e glielo lancio. Lei sa già tutto, è un rituale: la mia gatta si dà lo slancio e con le zampe anteriori lo agguanta. E ha inizio il gioco.

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La città in prestito

Craig Gaul

È alle otto di sera che ti accorgi che Milano non appartiene a nessuno. È una città sempre in prestito, a chi ci capita di passaggio, a chi ci si sente provvisorio, che sia per un’ora, per un giorno, per un anno o per qualche decennio. Qui il verbo «vivere» assume solo la forma transitiva: sembra che nessuno ci viva, nel senso di abitarci, ma piuttosto che tutti cerchino di viverla, per quanto possono. Fino a un’ora fa era in prestito ai pendolari, che l’hanno vissuta per l’ennesima volta attraverso il percorso ripetitivo della loro spola quotidiana. Attraverso occhi assonnati al mattino, indaffarati a metà giornata, stanchi la sera, l’hanno vista anche oggi più grigia di quanto non sia davvero. Ora il prestito è passato di mano. I locali sotto l’Arco della Pace sono affollati di giovani studenti stranieri dell’Erasmus, entusiasti di adeguarsi all’abitudine neoambrosiana dell’aperitivo. Le modelle eteree e diafane dell’Est, che qualche ora fa vagavano spaesate con una mappa in mano, ora reggono in quella stessa mano un beverone colorato e ipertrofico. Molto più numerosi di studenti e modelle, ma anche loro impegnati in annoiati crocicchi fuori dai locali di Corso Sempione, usufruiscono del prestito anche gli immigrati italiani di nuova generazione: provengono da ogni parte d’Italia, sono laureati, precari in carriera e grandi condivisori di appartamenti. Ansiosi di non tralasciare alcuno status symbol della milanesità acquisita, più tardi ceneranno immancabilmente in un ristorante etnico, possibilmente giapponese. Per loro il prestito scadrà venerdì sera, quando spariranno dal tessuto urbano, per riapparire con trolley al seguito il lunedì mattina, dopo aver trascorso un frettoloso fine settimana «a casa», perché Milano non è «casa». Intanto noi, milanesi espropriati che della moda/ossessione dell’aperitivo ormai non ne possiamo più, abbiamo deciso di alzarci e di optare per una cena vera. Dove andiamo? Qualcuno butta lì una proposta: io conosco un giapponese...

Ore 21

Un’ora eterna

Diego Cattaneo

È una relazione cominciata un anno e mezzo fa e, fra alti e bassi dovuti soprattutto a influenze esterne, continua regolare. Ci vediamo alla sera, per circa un’ora, fra le nove e le dieci; quattro o cinque volte la settimana, dipende dagli impegni. Quando so che ci vediamo – di solito a casa mia – mi preparo minuziosamente: apparecchio la tavola con cura – tovaglietta, tovagliolo, piatto, caraffa dell’acqua, pane. Nel frattempo cucino e comincio a pensare all’ultima volta che ci siamo visti. Mi piace, prima di cominciare, ripensare a come ci siamo lasciati. Cerco di riscendere fino a quel punto profondo, giù nell’anima, dove mi aveva toccato; mi sforzo di risalire su in alto fino a quell’universo morale dove mi aveva portato. Non è una relazione facile: passare insieme anche un’ora sola alla sera è complicato, nella città dove vivo. Dipende dagli impegni, dalla stanchezza, da questa struttura urbana e mentale che ti allontana e ti spinge verso rapporti inutili e pericolosi. È una relazione fatta di rispetto e di disciplina; di valori e di rivelazioni. Di incontri inaspettati, di sorprese folgoranti. Di piaceri limpidi ma anche di lacrime amare. Da quando ci siamo incontrati la prima volta la mia vita è cambiata; e non riesco più a farne a meno. Sono nel mezzo del cammin della mia vita, e questo aiuta. Relazioni come questa, 15-20 anni fa non avrebbero avuto – non avevano – lo stesso sapore. Ma io sono maturato, mentre la selva si è fatta sempre più aspra e dura. Adesso è un piacere abbandonarsi alla sua forza, alla sua sicurezza. Ma anche rispecchiarsi nei suoi dubbi e nelle sue paure, che sono quelle – eterne – dell’essere umano. Per un’ora alla sera, leggendo Dante, riesco a sentirmi un po’ più vicino all’eterno.

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La prima ora

Dario Cioffi

Quanto dura un sogno? Un incubo? Un risveglio? Non lo so più dire. Oggi ti vedo sorridere, disegnare con la tua dolce voce pentagrammi di melodie armoniose che noi adulti non capiremo mai. Tu volevi nascere, volevi vivere, volevi svegliarci da un incantesimo che ci aveva avvolto e coinvolto per nove mesi. Ma ombre di camici verdi, asettici in tutto, alle 21 di quella sera, hanno tentato di rompere per sempre tutto questo. Quando hai visto la luce non hai respirato la tua aria, ma quella di una macchina dal cuore di ferro e occhi in bianco e nero da 3 pollici e mezzo. Il tuo biglietto per la vita sembrava non essere valido per questa vita. E noi, tu e quell’incantesimo durato nove mesi, non eravamo pronti a sopportare tutto questo. In quell’ora nostra signora Morte ha bussato alla porta d’ingresso della tua vita. Ma tu non hai aperto. E Lei, rispettosa della vita come spesso non lo sono molti uomini, ha infilato sotto quella porta una cartolina con su scritto «Vivi». Sei stato forte. Sei stato grande. Oggi i tuoi 70 centimetri di vita sono circondati da visi colorati di cuori palpitanti di affetto. E chi osserva nei tuoi occhi il sorriso della tua anima, non può che scoppiare di amore per te. In quell’ora hai deciso di vivere. Di vivere tante altre ore. E vivrai giorni di tristezza e di felicità. Ma il tuo esistere, come quella tua ora di non vita, hanno cambiato per sempre i respiri di tante altre vite. E quando un giorno leggerai tutto questo, sorriderai pensando che la vita come la morte a volte durano un’ora soltanto.

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