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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Donna sposata a casa da sola perché marito in viaggio per lavoro

Lisa Corbetta

Dopo giornata lavorativa impegnativa, la felice sposina si reca verso casa facendo tappa dal fotografo per consegnare alcuni rullini da sviluppare del bellissimo viaggio di nozze (pensa al marito e ride); ritira il vestito in lavanderia che il marito indosserà al matrimonio di lunedì, si becca una strigliata dal gestore italo-tedesco perché ha perso il ticket del ritiro-vestito, ma pensa a quanto il suo bel marito stia bene con quel vestito e ride; va al supermarket e compra gli ingredienti per fare una sorpresa culinaria al suo maritino (visto che solitamente cucina lui); mentre sta caricando la macchina con tutta la spesa chiama la ormai suocera per dirle quanto sono belle le foto che ha fatto il cugino del cugino, blocca la suocera dicendo che non sente nulla e torna a casa (sempre ridendo perché a questo punto pensa alle foto del suo matrimonio); mentre sta sistemando la spesa telefona la mamma che le dice di chiudersi in casa a doppia mandata e di sprangare le finestre per la sua sicurezza; fa la doccia, sente per telefono il neomarito e ride felice, stende, mangia, prepara la lasagna per il ritorno del suo amore, butta l’umido, riporta al padrone il cane che è venuto a farle visita nel giardino e poi finalmente si siede sul divano per vedere un film e continua a ridere... Ore 23, abbassa le tapparelle e sente partire l’irrigazione automatica MMMHH, ma come? Il marito aveva detto che la pila era esaurita, che l’irrigazione non sarebbe partita, vabbe’ si fermerà, 10, 20 minuti, eh no non si fermerà; allora la sposa incapace va al tombino, prova a capire come funziona l’aggeggio dell’off/on, si bagna completamente ma non ce la fa... chiama il marito che sta gozzovigliando in quel di Roma, cercano di capire come fare a fermare l’aggeggio infernale (e si ribagna), prova a chiudere il rubinetto dell’acqua, ma la sposa incapace non ha più la forza di un tempo, e quindi si arrabbia, impreca contro il marito che in tutti i modi cerca di farle capire che non è colpa sua... insomma la sposa

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non ride più; chiama il padrone di casa che prontamente a suon di martellate sblocca il rubinetto e dà fine all’alluvione da giardino. La sposa stremata e arrabbiata con se stessa perché poteva pensarci prima a dare un paio di martellate al rubinetto, fa pace con il marito per telefono e va a letto ridendo un po’ meno, ma sempre ridendo.

Ore 20

Ore 20, invito a cena

Jacopo Galli

Sono quasi le otto: se non mi sbrigo arriverò in ritardo alla cena dei genitori di Annalisa. E questa è una mossa che non si deve fare, soprattutto quando ci si vede per la prima volta. Dopo aver saputo che io e Annalisa ci frequentiamo assiduamente da quasi un mese, hanno deciso che era ora di mostrarmi. Loro pensano di farmi l’esamino per vedere se vado bene per la loro bambina. Ma si sbagliano di grosso. In realtà sono io che giudico loro. Specialmente la madre. Perché la madre è la fotografia della tua ragazza fra vent’anni. Quella delle somiglianze è una faccenda che ho cominciato a notare quand’ero ragazzino: se guardavo le mamme delle mie dilette con attenzione riuscivo a cogliere forme e lineamenti che ricordavano in modo impressionante quelli delle loro figlie, ma molto più sciupati. E più gli anni passavano, più le previsioni si avveravano: le mie amiche alla fine erano quasi uguali alle loro genitrici, soprattutto nei difetti. Le ragazze, da giovani, sono quasi tutte carine, basta che si curino un po’ e la natura fa il resto: la pelle liscia, il ventre piatto, le gambine leggere, il sedere sodo. Ma poi? Il cibo adulterato, lo stress, il lavoro, le serate stravaccate sul divano a mangiare nutella direttamente dal vasetto, magari una gravidanza o due. Be’, queste cose ti cambiano. Profondamente. E stasera vado a vedere come sarà Annalisa tra una ventina d’anni. Annalisa ha dei numeri, è molto carina. Però ha quella camminata un po’ ingobbita... che non mi convince. Per non parlare poi dei difetti che non ho ancora scovato: in fondo ci conosciamo da così poco tempo... I miei amici dicono che sono pazzo. Ma in realtà i pazzi sono loro: si portano in casa delle bombe a orologeria che gli deflagrano sotto le coperte, quando suona la sveglia biologica. A me questo non capiterà. Ormai ho una certa esperienza: sono arrivato alla trentaseiesima cena con i genitori. Inutile che vi dica che le mie trentacinque precedenti fidanzate avevano delle madri tre-men-de...

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Uno e Mozart

Francesco Airoldi

Cinque secondi. L’ho perso per cinque secondi, accidenti! Le porte dell’1 si chiudono proprio mentre mi fiondo fuori dal portone di casa. Guardo il vecchio carrozzone allontanarsi con il suo spaventevole baccano. Ma chi osa sostenere che questi vecchi «1928» siano pittoreschi e da salvaguardare nel nome della tradizione? Io li detesto, questi «sferraglioni». Ne rumoreggiano decine e decine al giorno proprio sotto le mie finestre. E quando, raramente, mi decido a prenderne uno, non arriva mai. Come adesso. Piove di brutto. Di usare l’auto non ho proprio voglia, impensabile disincastrarla dal millimetrico parcheggio dove l’ho cacciata un’ora fa. E poi la zona di destinazione è imparcheggiabile. Aspetta e spera. Il cartello alla fermata informa che a quest’ora la frequenza dei tram è ogni 10 minuti. Perso quello delle 20.10, se prendo quello delle 20.25 ce la faccio. 20.35: non è passato un tubo. Irritazione e pioggia in aumento. Telefono all’amica: «Ciao, sono in ritardo... entra e tienimi un posto». 20.38: sbuca uno sferraglione. Salgo. Odore di pioggia e di varia umanità, tutti extracomunitari. Esasperante lentezza, fermate eterne agli incroci. A uno di questi il tramviere, faccia e voce antipatiche, annuncia che il tram va in deposito. Scendo incazzatissimo, è tardissimo, non ce la farò mai. Ritelefono: «Senti, qui succede che... mi spiace». Mi incammino verso casa, sconfitto dalle avversità e dall’Atm. Poi penso: “Eh no, mica gliela do vinta così!”. Acchiappo al volo il tram seguente dopo soli due minuti (mistero), le rotaie sono decentemente sgombre (nessun tanghero col Suv messo di traverso). 21.05: entro nella chiesa, trovo e saluto l’amica, mi siedo. 21.06: l’organo comincia piano, poi il coro attacca con Mozart: «Ave verum...». Chiudo gli occhi, dimentico miserie e contrattempi di questa Milano ormai invivibile. Mai come adesso capisco cosa intendeva il grande Ludwig Van quando scriveva: «Musica, rivelazione più alta di ogni saggezza e filosofia».

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Incontro

Nunzia Vaccariello

Cammino veloce, strade intasate dal traffico, fiumi di persone, ognuno con la sua storia, con la sua solitudine che corre verso una meta o tenta di farlo, il solito caffè al bar, il giornale all’edicola e ancora di corsa, altri volti passano, sirene spianate della polizia, il clacson assordante delle auto che cercano di liberarsi dalla trappola. Rumore, confusione, caos... assenza di profumi... Svolto l’angolo, il mare... Pacato con il suo odore inebriante, pungente, una lastra accarezzata dal sole, mi attrae; una bimba con i codini gioca su una porzione di spiaggia incurante della fretta degli altri, crogiolandosi al sole. Mi fermo, guardo avanti, e il silenzio esplode... vedo solo la bimba, l’immensità, e lì mi perdo. Inspiro il profumo del mare, calmando la mia anima. Rivedo un volto sorridente, spensierato, curioso, due codini castano chiari, un corpicino minuto reso irrequieto dalla gioia di vedere il mare per la prima volta. Per dieci anni lo avevo solo immaginato, ma non lo avevo mai visto... Una domenica fui portata al mare, la spiaggia era quasi deserta, io arrivai di corsa, mi bloccai all’improvviso sulla riva e mi persi nella sua immensità. Mi sentivo piccola come una formica e pensavo che il mare e il cielo finissero laggiù lungo quella linea. Sono stata convinta di questo per un bel po’ di tempo, fino a quando vidi spuntare una nave, e mi fu spiegato che quella era la linea circolare che separa la terra dal cielo: l’orizzonte. Crescendo, quella linea era divenuta una guida, era il limite tra razionalità e follia, tra esperienza e perdizione e ogni volta che nel mio viaggio si avvicinava una mareggiata cercavo l’orizzonte dove poter protrarre la mia anima ed elevarla al di sopra del mare in burrasca, aspettando la bonaccia. Poi c’erano i predoni del mare, uomini grigi, ladri di tempo, distruttori di sogni, che all’improvviso comparivano e razziavano la mia anima. I pirati... Quanti tesori hanno sottratto dal forziere, perle preziose donatemi gratuitamente.

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I numeri magici

Emanuele Persico

Erano le otto e la cena era in tavola. Come suo solito Gustavo era lì davanti alla televisione con quello stupido foglietto in mano. Seduta a tavola lo guardavo e pensavo agli anni passati con lui, alla mancata possibilità di aver incontrato un uomo che sapesse cosa vuol dire amare qualcuno. Dopo quarantacinque anni di matrimonio senza figli, in cui lui si è sempre fatto i fatti suoi, penso d’a- verlo sposato a causa di una stupida incoscienza giovanile! Che magra consolazione, specialmente quanto ti rendi conto che non è un sogno ma una realtà che non svanisce al risveglio. Il suo lavoro statale da responsabile gli aveva inculcato quel comportamento da capoufficio che manifestava anche a casa. «Ancilla, mi passi le ciabatte?» oppure: «Ancilla, ma non è ancora pronto?»; un’altra frase carina e piena d’amore era: «Ancilla, domani ricordati di giocarmi i numeri del Superenalotto!». Pare infatti che molti anni prima, quando esisteva solo il Gioco del Lotto e non tutte queste scommesse legalizzate, suo bisnonno avesse dato in sogno a suo nonno cinque numeri speciali. Negli anni, la sua famiglia li aveva sempre giocati nella speranza del colpaccio. Poi con l’avvento del più remunerativo Superenalotto, Gustavo aveva aggiunto il sesto magico numero. Tre volte alla settimana, dalle sette e un quarto alle otto, preparava una valigia con dei vestiti, prendeva la foto del bisnonno e si sedeva in poltrona davanti al televisore concentrato sui numeri che avrebbero estratto. Non lo si poteva disturbare. Sarebbe potuto crollare il palazzo e lui se ne sarebbe accorto solo alle otto e un quarto, a estrazione terminata. Io invece, tre volte alla settimana, alle otto precise, prendevo il telefono e preparavo il numero del 118, nel caso in cui i numeri fossero usciti. Non avrei mai avuto il coraggio di dirgli che i suoi numeri non li avevo mai giocati. Dovevo stare attenta a cosa si spendeva, d’altronde qualcuno doveva gestire le finanze della casa, qualcuno con due dita di testa.

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Improvvisamente l’inverno scorso

Andrea Palermo

Sullo schermo di un cinema di Osnabrück in Germania si stanno alternando le dichiarazioni di politici italiani: Buttiglione, Binetti, Salvi... Il pubblico rumoreggia incredulo. Mi trovo alla proiezione del documentario Improvvisamente l’inverno scorso di Gustav Hofer e Luca Ragazzi. Sono un po’ agitato perché la direzione del locale Festival del Cinema ha chiesto a me (che insegno italiano) di rispondere alle domande degli spettatori. Gustav e Luca sono due giornalisti che avevano deciso di raccontare in un film l’approvazione della legge sui DiCo. Una legge che avrebbe consentito anche a loro, dopo otto anni insieme, di ufficializzare la loro unione. Non è andata così, e il film mostra il perché: dal fuoco di fila di dichiarazioni contrarie da parte dei vescovi e del Papa alle manifestazioni organizzate «in difesa della famiglia» da associazioni cattoliche e da gruppi di estrema destra alle divisioni e al naufragio dell’e- sile maggioranza di centrosinistra. Il film si chiude con il matrimonio virtuale di Gustav e Luca, celebrato ironicamente davanti a una filiale dei supermercati «Dico». Si riaccendono le luci in sala, parte un applauso convinto. Io e l’altro invitato, un giornalista tedesco, ci alziamo. «Davvero la Chiesa cattolica in Italia può impedire l’approvazione di una legge?» vuol sapere un ragazzo. Il giornalista ricorda che l’Italia è l’unico Paese dell’Europa occidentale a non avere una legge per le unioni di fatto. Io spiego che le frasi più sconcertanti del film erano di estremisti di destra, e non erano rappresentative della maggioranza degli italiani. «Herr Buttiglione non è di estrema destra, però» incalza il giornalista. «No, è di centro» ammetto io. «In Germania nessun politico potrebbe esprimersi in questi termini» chiosa lui. Non ci sono altre domande, il pubblico applaude ed esce dalla sala. A me resta la sensazione di aver cercato di difendere l’indifendibile. Non è una sensazione infrequente, per un italiano all’estero.

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Nell’ora della nostra morte

Luca Di Garbo

Leventi. Cinque minuti. Mancavano cinque maledetti minuti all’i- nizio dello spettacolo. Quegli abiti di scena non li sentivo affatto miei. Stringevo il breve copione in mano. Nevroticamente distoglievo lo sguardo a testare la memoria, salvo piombare dopo un nonnulla sull’anonimo foglio, alla ricerca di parole rivelatrici, amiche. Nulla. Non ricordavo una fottuta parola. Il vuoto eterno. Il nulla vi dico. E io c’ero dentro: ero fuori dal personaggio e non sarebbero bastati certo cinque minuti per entrarvi. Incrociai la regista nel corridoio. Andava di fretta. Le andai dietro con medesimo passo, non umore. Inciampai su cavi, attrezzi scenici e sacchi sparsi. E balbettai il mio disagio: non mi guardò neppure in faccia. Le ventiecinque. Sipario. Salii sul palco. Silenzio. Attimi. Macigni. Freddo. Tentai di far mie le parole della suggeritrice con malcelata sicurezza. Poi improvvisai, malamente. Infine tacqui. I miei compagni di scena entravano e uscivano, il tutto aveva un suo senso. Io no. Vuoti di scena e di memoria. Abbandonai il palco con la sensazione di una palpabile inadeguatezza. Il pubblico invece applaudì lacerando così l’opprimente silenzio. Leventiequarantanove. La fine. Lunghi applausi. Non per me, io non mi presentai per il ringraziamento. E nessuno venne a dirmi niente. Non una parola, anche cattiva. E ne soffrii. Sprofondai su una sedia. In disparte. Distante da tutto. Ci rimasi. Leventiecinquantotto. Tutta la compagnia mi sfilò davanti, senza salutare, senza un cenno. La regista, anche stavolta, non mi degnò di uno sguardo. Poi si fermò, catturò l’attenzione di tutti e disse qualcosa, visibilmente commossa. Non percepii l’inizio delle sue parole, ma in un certo senso sentii che mi riguardavano. Mi alzai lentamente prestando orecchio. Allora capii. Raggelai. Leventuno. Mi lasciai cadere sulla sedia. A peso morto. Morto qual ero. E non sapevo.

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