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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Venerdì 16 maggio, in Finlandia

Vittorio Giannini

Dopo 35 anni di matrimonio e di vita addormentata ero rimasto vedovo. Non avevo fatto il militare da giovane, ma poi col passare degli anni era stata sempre di più una vita da caserma, l’amore che c’era all’inizio era diventato volersi bene. Poi abitudine. Avevo rintracciato una conoscente, una vecchia conoscente già da 27 anni, vedova, con cui abbiamo avuto una simpatica amicizia e rapporti di lavoro. Venne a trovarmi, erano almeno cinque anni che non ci vedevamo. Era come la ricordavo: gli occhi belli, la fossetta sul mento, le mani che ho sempre ammirato. Parlammo di tante cose, i figli, la sua bella carriera. Ci fu una breve pausa nei racconti e nel mio grande cucinone venne fuori una voce che disse: «Marita, vuoi entrare nella mia vita?». Mi abbracciò dicendomi: «Caro». Il mio cuore aveva parlato, il tè che avevo bevuto non era colpevole, ero felice per quello che avevo proposto. Le chiacchiere proseguirono, anche se un po’ scombussolate da ambo le parti. Non ci chiedemmo niente, lei aveva capito e io aspettavo. In serata, quando mio figlio passò a trovarmi gli raccontai di questa visita, non raccontai tutto, ma capì tutto: «Babbo, ti metto il suo numero nel cellulare, nel caso la vuoi chiamare...». Per varie ragioni non ci vedemmo nei seguenti quaranta giorni, ci incontrammo per la festa di San Giovanni. Sono adesso 16 mesi che stiamo insieme il più possibile, siamo anime gemelle, ci amiamo, facciamo viaggi insieme, sono fiero di lei, conosciutissima nel suo campo. Figli, parenti e amici ci hanno accolto molto bene. Quell’ora del 16 maggio nel mio cucinone ha cambiato tutta la mia vita, adesso sento veramente di vivere. La mia seconda vita.

Ore 18

Franny

Maria Beria

Alle 18 di ogni giorno, Franny esce dal suo ufficio e si incammina verso casa sua. Fa questo percorso a piedi. Attraversa il parco Solari, percorre corso Genova e arriva in via Vigevano dove abita. Si tratta di venti minuti circa, circondata da tanta gente, tram che vanno e vengono, negozi da sbirciare, pane e latte da comprare, qualche amico da incontrare strada facendo. Ma l’incontro immancabile è con me che sono la sua mamma. È un incontro telefonico, abbiamo una di quelle tariffe particolari io e lei e quindi possiamo parlare fin che vogliamo, tanto è già tutto pagato! E allora ecco venti minuti pieni di confidenze, sfoghi, cose piacevoli e meno belle. Sai quella mia amica mi ha fatto il bidone, sai il mio ragazzo mi ha lasciata, sai in ufficio è un caos totale però poi... in fondo la mia amica si è scusata e ci vediamo domani, il mio ragazzo non sa cosa si perde, in ufficio siamo riusciti a rimediare. A proposito la Eli mi ha fatto vedere le sue foto di quest’estate, bellissime. Io le ho raccontato del mio viaggio in India dove ho lasciato un po’ del mio cuore. Ah mamma, sai, ho sentito Paolo. È un po’ preoccupato per il suo prossimo esame. Come sempre è negativo, come buona parte dei membri della nostra famiglia, allora ho cercato di dargli la carica. «In fondo sei il genio della famiglia, se non ci dai soddisfazioni tu...» Il fiume di parole è inarrestabile, anche da piccola non stava mai zitta un attimo. E se qualche volta non le davamo retta trovava il modo per attirare l’attenzione. «E tu mamma, come hai passato la giornata?» E allora parto io. «Tuo padre è sempre più sulle nuvole, forse esaurisce tutte le sue forze in ufficio, sono in ansia per la salute della mia amica che non riesce a riprendersi dopo un intervento importante, so che dovrei andare più spesso dai nonni, ma a volte non ce la faccio proprio.» Franny arriva sotto il portone di casa sua. Ciao mamma. Ciao Franny. Questo è il nostro modo per dirci che ci vogliamo bene!

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Il 25

Riccardo Scintu

Quanta gente alla fermata! Ecco il 25, sarà affollato come al solito. Fortuna che è in ritardo, sarebbe dovuto passare alle 17.57. Entro da dietro, c’è più spazio. Devo attraversare l’autobus per timbrare il biglietto, tra mille persone che mi guardano di sbieco. «The lunatic is on the grass» gracchia il mio mp3, mentre si parte dalla stazione di Bologna alle 18 in punto. Ho passato la giornata in Romagna per seguire un seminario, non vedo l’ora di arrivare a casa. Via Amendola, «there’s someone in my head but it’s not me», che caldo, non c’è posto a sedere, sarà un viaggio terribile. Ah, guarda, casa di Mich... «Ah!» Che male! Una signora mi guarda con un bastone in mano e muove la bocca come un pesce. Tolgo le cuffie. «Si toglie di mezzo? Deve mica scendere?» «No signora» rispondo, «passi pure» sicuro che non debba scendere neanche lei. Il viaggio prosegue, via Ugo Bassi di corsa, poi via Rizzoli. Guardo le due torri simbolo di questa città, mentre canticchio tra me e me, «running over the same old ground, what have we found? The same old fears, wish you were here». Cambio del conducente. A questa fermata c’è un ricambio quasi completo di equipaggio e di passeggeri; pochi i superstiti tra quelli saliti alla stazione, spesso accompagnati da borse, sacche e valigie. Vita da pendolari, da una grande città alla provincia. Strada Maggiore, a tutta birra, due fermate; in una di queste entra lei, bellissima, mi si avvicina e mi chiede indicazioni. «Non c’è problema, mi fermo lì vicino» dico mentendo: è proprio carina. Ci scambio due chiacchiere, sta andando dal fidanzato. Le indico la fermata e dico che scenderò alla prossima. Però ci siamo quasi. Scendo e di corsa a casa. Sono quasi le 19, come previsto. Ma non dovevo fare qualcosa? No! Michele! Dovevo passare da lui. Mi perdonerà se non lo faccio, non pretenderà mai che faccia due ore di viaggio per un cd. Spengo l’mp3, che ha ancora la forza per dirmi che «your wise men don’t know how it feels to be thick as a brick».

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Passeggiata crepuscolare

Ilaria Fusè

Sono quasi le 18: è ora di evadere dall’ufficio. Ovvero il soggiorno di casa, a Dublino. Sono qui ormai da una settimana, e ancora devo impostare ritmi di vita salutari. Come uscire almeno un paio d’ore al giorno, soprattutto se fuori, nell’uggiosa Irlanda, c’è il sole. Quindi, via la divisa del telelavoratore (tuta o pigiama) e di corsa a esplorare il quartiere che mi ha accolto. Uscendo, alzo lo sguardo sulla cattedrale di St Patrick, con il campanile impacchettato causa restauri. Penso al Duomo di Milano, e mi chiedo se mi fermerò qui tanto da vedere la torre riportata al suo antico splendore. La meditazione dura solo un attimo, perché avrò sì e no un’ora e mezza di luce. Decido di esplorare la zona a ovest della mia casa, un quartiere dove un tempo si ammassava la popolazione cattolica più povera che, in attesa di passare all’altra vita, in questa non aveva che un rimedio per non pensare alle proprie disgrazie: bere. Così, se l’anima trova rifugio in una delle tante chiese della zona, il corpo si perde, neanche a dirlo, seduto al bancone di un pub. Fantasiose insegne si alternano a case di mattoni rossi, officine, capannoni, rosticcerie orientali. Arrivo infine davanti alla vera cattedrale, almeno nell’immaginario dei miei coetanei italiani: la vecchia fabbrica della Guinness. Sorrido, pensando a quanto mi prenderanno in giro gli amici, quando sapranno che vivo nel quartiere della birra. Il cielo è tinto di rosa (rosso di sera... sarà vero anche qui?), mi ricordo che devo fare la spesa. La Provvidenza si traveste da discount. L’interno è affollatissimo, tre casse aperte e code interminabili: ecco i nuovi poveri. Mentre aspetto il mio turno, realizzo che tutti si sono portati zaini e borse di tela, e mi complimento mentalmente con l’Irlanda, che con successo ha insegnato ai suoi cittadini l’arte del riciclaggio. Ma quando tocca a me, afferro il motivo di tanto amore per l’ambiente prendendo una busta di plastica: costa 22 centesimi. È una follia. Però funziona.

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In Dublin fair city

Chiara Bianchetti

Momento di consueta goliardia innaffiata da litri di una birra scura come il petrolio in una strada tappezzata da locali di richiamo nella cosmopolita Dublino. Un po’ pare la città di tutti e di nessuno, dove orde di giovani giungono dai continenti più lontani entusiasti di cominciare a esplorare la vecchia Europa dalla sua porta più esterna. Gente di ogni età e d’ogni tipologia con entrambe le mani occupate a reggere Guinness fuori e dentro gli affollatissimi pub si spreca. Alcuni di questi hanno veramente l’odore di vecchie distillerie, del legno bagnato e impregnato di whiskey. Agli angoli di alcuni di questi emergono segnaletiche eccentriche, ma utili in alcuni casi, come quella che domina il primo piano del Gogarty e che recita: «Do not spit on the floor». Bizzarro. Una delle poche cose che ironicamente mi fa riflettere sulla città in cui vivo ormai da più di un anno. Io e la mia combriccola di Italians espatriati in cerca di «fortuna e gloria» nella terra dei folletti, ci intrufoliamo in un pub sgangherato vicino alla cattedrale di St Patrick. In un angolino non più giovanissimi intonano vecchie glorie nazionaliste dei tempi andati. È uno di questi gruppi che ci richiama l’attenzione e che con incredibile scioltezza inizia a parlarci. In un inglese arduo e storpiato dall’accento ci raccontano storielle di Dubliners finché uno di loro col viso rosso come una Ferrari, approfittando di una ballata irlandese, mi prende invitandomi a seguirlo in una danza Jigs. Neppure durante la danza, il vecchio lascia la sua preziosissima pinta, anzi la regge incurante di qualsiasi movimento azzardato, seguendo solo il ritmo incalzante col battito dei piedi. Dimenandomi come una tarantola di legno cerco nell’emulazione un’ancora di salvezza, inutile. Ma è in quei movimenti sgangherati e nella gioia apparentemente spregiudicata di quei non più giovani che ritroviamo anche noi, abituati a troppa ricercatezza, la voglia genuina di ridere e divertirsi come bambini adulti.

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Un pomeriggio «qualunque»

Cecilia Corriga

Seduta su un muretto a fumare una sigaretta, a condividere con quasi sconosciuti un’esperienza straordinaria... chissà come siamo visti dal di fuori... la risata coinvolgente, il sorriso contagioso, gli occhi brillanti. L’immagine della gioventù, di chi sta iniziando a vivere i suoi sogni e ha mille avventure, mille possibilità davanti. L’età in cui tutto sembra possibile, in cui tutto è possibile se solo lo si vuole abbastanza. Una città nuova, sognata da sempre, e la sensazione di averla vissuta da sempre. Persone che già segnano la mia vita, incontri che già mi hanno cambiata in maniera indelebile, la sensazione di essere a casa, al sicuro, come raramente provo nella città che dovrebbe essere mia, ma che mai ho sentito tale. Ripenso a una ventenne partita di casa con una valigia e mille sogni, e a distanza di cinque anni la rivedo sempre uguale ma profondamente cambiata. Il futuro un’incognita spaventosamente eccitante, nessuna certezza e va bene così, perché così dev’essere, così voglio che sia. Life is short. Life is mine.

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Le sei, sei e un quarto

Alessandro Meli

Mi tocco il polso oscenamente nudo. Come ho potuto scordarlo, proprio oggi? Stasera i tracciati sono più nitidi del solito nel cielo che imbrunisce. Settembre, le giornate si sono accorciate; alle cinque sono uscito, ho camminato molto scrutando il cielo come un aruspice: le sei, sei e un quarto. Non un orologio lungo tutto il viale, possibile? Mai dovuto farci caso, ho il mio cerimoniale: archiviare la vita a intervalli regolari, verificarmi vivo guardandomi il polso. Loro non intuiscono. O non vogliono pensarci? La tv minimizza e ciò che dice è vero. Perché dubitarne? Mi incrociano indaffarati: capufficio, figli, amante, cosa cucino per cena? Lo sguardo al marciapiede. Eppure c’è una fretta nuova nel loro passo. Dovrei fermare qualcuno, chiedere l’ora. È importante saperlo, stasera. Ma non riesco a non fissare le scie vaporose, aggrappate a quei puntini fiammeggianti. Mi fermo davanti a una vetrina: dai televisori esposti nessuna risposta, solo volti rassicuranti, i mezzibusti dei telegiornali. Chissà che mi aspettavo. Perché ripenso a Teresa? Che cliché. La mia ex moglie, il suo corpo nudo nei pomeriggi di Castellaneta. Sotto casa ultima occhiata al cielo pentagrammato dai fumi. Un’incrinatura nelle geometrie dei ricami: pare che ci siamo. In ufficio c’è una scommessa vinta che non potrò riscuotere. Una bolla fiammeggiante sembra averci scelto, punta dritta a noi. Perciò scelgo con cura: lascio passare l’impeccabile commerciale incravattato, fermo il passo sonoro di tacchi della giovane donna che lo segue. Una studiata eleganza le attribuisce una grazia che la rende bella, inequivocabilmente. Ha un buon profumo. «Chiedo scusa, sa dirmi l’ora?» Scosta la giacca scura. «Le sei e venti.» Avverto la mia espressione aprirsi in un sollievo che deve sorprenderla: resta in attesa anziché rituffarsi nella sua corsa. «Grazie, grazie molte» e non sono mai stato tanto sincero. Mi osserva accennando un sorriso, la anticipo e chiarisco: «Appena in tempo».

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