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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Guardia. Un’ora. Un pensiero. Tu-tum

Lorella Numis

Un’ ora esatta. Tra un’ora staccano internet, alle 23, quindi ho davvero un’ora per raccontare questa ora, questa storia, questo pezzo di vita. Mi bruciano gli occhi, c’è silenzio... strano, bene. Nessun allarme che suona, alzo lo sguardo sul monitor alla parete. Una serie di tracce che scorrono, testimoniando che la vita scorre tranquilla ora per quelle persone, il cuore batte regolare. Tranne per uno, che sta a 130, ma passerà spero. La mia divisa è troppo larga, come sempre, questo color glicine è orribile, in compenso gli zoccoli gialli sono carinissimi. Ecco, suona un allarme, andrà l’infermiera... vediamo se mi chiama, o se è una cosa semplice e risolvibile... tipo prendere un bicchiere d’acqua, abbassare la testata del letto. Speriamo nessuno con dolore, che già abbiamo operato stanotte, e sono stanca. No... nessuno ha bisogno di me, bene, guardo il monitor, ritmo regolare per tutti (tranne quello, ok, ma sono sicura che passerà in nottata). Si è affacciata l’infermiera, mi ha chiesto se poteva dare un farmaco, riferendomi la pressione del paziente... ok. Pensavo oggi, in una pausa di queste lunghe 24 ore festive, a quello che vorrei, alle situazioni assurde in cui mi ritrovo ultimamente. Alla costante instabilità, indecisione, al non sapere dove andare, dove restare. Sì, ma proprio ora l’Osa deve venire a pulire il tavolo? Ok, fatto. Dicevo... non so se sto vivendo nel modo giusto, qui, con questo tipo di lavoro che ingloba tutto e non mi dà sicurezza (precariato di merda anche qui!), questa mia città mediocre, la smania di muovermi, di trovare qualcuno che sia folle e complesso come me, che si lasci prendere, che mi prenda, la paura di sbagliare... So dove vorrei stare in questo momento, in questa ora, questa notte... in un abbraccio. E sentire parole nell’o- recchio, e mani. E capelli ricci che si confondono tra miei e tuoi. Non so se pensarci, se desiderarlo, se lasciare che la mente parta...

perché non so se è giusto, se lui sente... Ma se fosse proprio lui?

301

Guardo le stelle

Nicoletta De Bonis

Guardo le stelle, mentre in macchina ritorniamo a casa. Sono le dieci di sera, e come ogni domenica siamo stati a trovare le «mamme», che abitano in un’altra città, lontano da noi. Un appuntamento fisso, inizialmente dovuto e, nel tempo, diventato un modo per tenere ancora stretto nelle nostre mani il legame alle nostre origini. Ormai sono anziane, è facile voler loro bene. Sono lontani i tempi delle liti, della ribellione al loro non volerci mollare, delle nostre continue richieste di aiuto nel tenerci i figli, del fastidio degli inviti a pranzo la domenica, quando volevi stare per i fatti tuoi o andare in giro con gli amici. Una non sente e non cammina quasi più, l’altra non ricorda più niente, ha l’Alzheimer. Anche adesso, ci aspettano la domenica, come prima. Ma adesso siamo noi i loro genitori! Siamo noi gli adulti che manovrano le loro vite, che scelgono e confortano le loro badanti, che gestiscono i soldi per loro, che strappano loro un sorriso, un bacio. Guardo le stelle, dov’è il Carro? Ma guarda laggiù che stella grande! Forse non è una stella, sarà un pianeta. La musica va, mio marito guida, silenzioso. I fari delle altre macchine scorrono accanto a noi, mancano ancora trenta chilometri a casa. Tra un po’ saremo al casello. Meno male. Domani mattina devo alzarmi presto per andare a Milano per lavoro. Cosa metterò? Appena a casa, preparo i vestiti. Devo mettere l’ombrello in borsa, tirar fuori la cena per i ragazzi dal freezer... Devo smettere di lavorare! Finalmente potrei stare a casa a godermi gli ultimi impegni con il più piccolo. Piccolo? Ma che piccolo! Ha quindici anni... Perché no, potrei smettere... Guardo le stelle di domenica sera in macchina, con la musica di sottofondo. Sono anni che guardo le stelle la domenica sera. E sono sempre le stesse stelle nello stesso cielo buio. Sono puntini lontani che non illuminano. Rimangono desideri nella consuetudine della mia vita, su un’autostrada di sera, da sola, con la musica di sottofondo e i fari che scorrono intorno a me.

302

Il Paese che non esiste

Vincenzo Maggio

Abito negli U$A, la valuta locale è il tollaro. Io sto nel sudovest, a Solleich Siti, in piene Montagne Rocciose. L’aria mi piace perché è molto secca, non per niente lo chiamano deserto. Al contrario del- l’Itaglia dove non c’è un posto con umidità media inferiore al 5060%. Venni qui a 48 anni per visitare il posto, non avevo mai visto l’Ammeriga. Nella vita ho avuto una dozzina di fidanzate ma non mi sono mai sposato, qua mi piacque l’aria secca, per stare legalmente mi feci un visto da studente. Così alla mia non tenera età tornai all’università e dopo vent’anni come programmatore e amministratore di sistema, ma sempre part-time, finalmente ho preso la mia laurea e, contemporaneamente, il visto è scaduto. «Sarei» dovuto rientrare in Itaglia... ma al governo son tornati i fascisti, davvero non me la sentivo. Così son rimasto. Per mantenere alta la tradizione dopo un anno sono ancora disoccupato. Sopravvivo con lavoretti: sviluppo di piccoli siti web, progetti di piccole reti di pc, aumentare la sicurezza su una Lan, e a tempo perso fabbrico firewall con Unix su vecchi pc. Tutti questi lavoretti ovviamente rigorosamente in nero. Ma ne trovo troppo pochi per farci su una vita. Così lavoro part-time in un call center per assistenza desktop, dalle 10 di sera alle 2 di mattina. Torno a casa, dormo poche ore e faccio il turno 7-12 in un altro call center. In media ci pagano 12 tollari l’ora. Poi pranzo e mi rifiondo in strada per cercare i suddetti lavoretti. Quello che mi meraviglia molto è la discriminazione: con oltre 2000 ditte locali che o sono direttamente nel settore, o hanno un dipartimento It, perché con la mia esperienza sono ancora disoccupato? Manca una settimana alle elezioni dell’O’President; speriamo vinca Obama, sembra un tipo ok, McCain mi spaventa. Forse Obama aggiusterà la nostra situazione di immigranti illegali. La mia auto è vecchia di vent’anni. C’era una volta l’Ammeriga.

Ore 23

Vecchi compagni di scuola

Viviana Viviani

Chi dice che, tra compagni di scuola, è quasi inevitabile perdersi di vista? Potrei testimoniare l’esatto contrario. Con Lucia per esempio. L’ho seguita sempre, fin dai primi concorsi di bellezza locali. Miss acqua minerale, Miss saponetta, Miss dentifricio. Già a scuola era la più bella. Non si è mai accorta dei miei sentimenti, ma non importa. Non sono il tipo che porta rancore, anzi continuo a votarla nei concorsi online, e lei sale alta nella classifica e mi ringrazia sorridendo soddisfatta. Poi c’è Mario, il mio ex compagno di banco. Bravissimo in matematica e fisica, quanti compiti gli ho copiato! Oggi è ingegnere, tre anni fa si è iscritto all’Albo. E Stefano, che invece era il migliore nelle materie letterarie, ha vinto da poco un concorso da ricercatore universitario. È bello avere amici in gamba, che fanno cose importanti. Mi fa sentire fiero, parte di qualcosa. Purtroppo qualcuno è anche finito male. Andrea, tre anni fa. Meglio non pensarci ora, è troppo doloroso. Di lui non sapevo più niente da tempo, ma fu comunque un grande dolore sapere all’improvviso che non c’era più. Poi c’è Anna, meno bella di Lucia ma dolce e simpatica. Di lei ho visto tutto, la laurea, il matrimonio, la sua bellissima bambina. Come al solito mi sono perso in ricordi, qui davanti allo schermo luminoso. È quasi mezzanotte, meglio andare a dormire, domani ho il turno delle sei. Ormai è un’ora che sto al computer. Google è una grande invenzione: basta digitare un nome e un cognome per ritrovare persone di cui non sapevi più nulla. I concorsi di Lucia, l’albo degli ingegneri di Mario, l’università di Stefano, il blog con le foto di Anna, l’incidente di Andrea. Il telefono tace, nella cassetta della posta solo bollette, e la mail è piena di spam. Qualcuno potrebbe ritenere che io sia un uomo solo. Ma continuo a pensare che magari, in qualche sera solitaria, qualcuno digiterà distrattamente il mio nome, e scoprirà che anche un ultimo della classe può essere capace di scrivere poesie.

307

Chi non Vespa più

Lorenzo Ribeca

Undici di sera. Guardo la tv nel mio letto in attesa che torni mia moglie dalla palestra. Sudata con tuta attillata. Vaghe speranze nel cuore e nelle mutande. Bruno Vespa coi suoi ospiti nella mia stanza. Mia moglie si spoglia. Per un istante oscura lo schermo, la cronaca italiana, la politica e l’Italia che fatica. C’è un plastico in tv, la Knox che fa da sfondo. Vado pazzo per la Knox, dico ammiccando. Mia moglie non ride, anzi s’incazza. Ma non fa niente, ora faremo l’amore. Lancia il suo reggiseno addosso a Vespa. Alzo il volume del televisore al plasma. Senti un po’: l’aviaria e l’Alitalia, la Sars e le borse. Senti qua: il pubblico impiego, la sanità, le mazzette e l’università. E guarda un po’. Lo sai che c’è la mafia, il made in Italy, la camorra. E che siamo in Europa? La Bce, l’Fse, il Wto e tutto quello che so. Ecco la pubblicità. Riposo un attimo la mente. Mia moglie butta via le mutande. Le accarezzo il seno, spengo l’a- bat-jour. Rimane la tv. Il collo di mia moglie. Il crollo delle borse. Le borse sotto agli occhi. Un ladro coi fiocchi. Dalle sue labbra scendo piano. Ci osserviamo con cautela. Infilo le mani nei posti giusti, lei mi lascia fare. Ci rifugiamo in piaceri ancestrali. Vespa alza la voce. Rifiuti a Napoli. Ecoballe. Tasse. Contributi statali. Contributi europei. Mibtel. Iraq. Terrorismo. Afghanistan. Razzismo. Immigrazione. Microcriminalità. Sciopero dei treni. Sciopero dei poveri. Sciopero della fame. Rotoliamo io e mia moglie, c’avvinghiamo. Camera dei Deputati, Camera del Senato. Camera di casa mia. Camera Café. Chi amerà più di me. C’è un Pil che scende e un Pil che sale. Falso in bilancio, la condizionale, la sanzione penale, l’indulto e il carcere affollato, oddio chi è ammalato. L’allarme di un’auto continua a suonare. Facciamo l’amore con tutto il cuore. Alzo lo sguardo alla tv e abbandono tutto il resto. Vespa contento si sfrega le mani, che sia sesso anche questo?

308

Come una mosca nella tela

Fabio Pulito

Georgetown, il cuore di Penang. Minareti alti e decorati, statue vagamente psichedeliche aggrappate alle colonne dei templi indù, pagode avvolte in nuvole di incenso e case delle corporazioni con facciate dai tenui toni pastello. E poi ristoranti, alloggi, botteghe di artigiani e magazzini di commercianti. Il tutto avvolto da un pallido velo di coloniale e d’antico. È tardi, le 23. Ho fatto appena in tempo a mettere giù i bagagli che sono già in strada a passeggiare, ad annusare, ad assaggiare e a osservare per cercare, a volte inutilmente, di afferrare e conservare, se non proprio di ricordare. Oltrepasso una moschea davanti alla quale un gruppo di signori con vestaglie e copricapi ricamati stanno seduti a chiacchierare. Vengo attratto dalle note di una canzone familiare. Rallento il passo. Come un ragno che si avventa su una mosca intrappolata nella tela, mi viene incontro un signore con la pelle scura e i baffetti sottili. «Solo un’occhiata... Indonesia!» «Come?» Fa un cenno in direzione del- l’orchestra e riprende il ritornello. «Entra... un’occhiata... non piace... andare via.» Il suo inglese non è buono, ma si vede che il numero è stato provato e riprovato. «Eh, magari più tardi.» «No...

adesso. Dai!» Ha un sorriso delizioso, che mi attrae come un cobra davanti al piffero dell’incantatore. Lo seguo all’interno di un cortile. Conosco la canzone. «È cinese!» «No, Indonesia!» insiste lui. In effetti il cantante potrebbe essere indonesiano. «Sì, ma sta cantando in cinese.» «Indonesia... anche Cina, Malesia... lingua inglese.» Ma di che sta parlando? Ci saranno altri complessi? Poi lo osservo meglio e mi accorgo di un disallineamento tra i nostri sguardi. Mentre il mio fino a ora stava fisso sul cantante, il suo scorre lungo lo spazio che mi separa da un gruppo di spettatori, anzi spettatrici. La mia confusione dura poco. Faccio le somme tra i vari fattori. Indonesia, Cina, lingua inglese, donne e quel... se non ti piace vai via. Ma è un magnaccia! «Ah, no grazie!»

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Quell’angolo che possediamo...

Michela Altoviti

Appoggia la testa sul cuscino e spegne la luce quasi meccanicamente. Sta per addormentarsi ma è cosciente. È come camminare su una fune tesa tra ciò che è e ciò che non è ancora: un lasso di tempo, più o meno breve, che lei adora. Sei lì che cerchi di afferrare i pensieri, ma sono come pesci tra le mani di un bimbo che gioca in riva al fiume: scivolano via, faticano a rimanere fermi, non possono farlo se vogliono continuare a vivere. Vanno mescolandosi ad altri che sopraggiungono in fretta e sbiadiscono altrettanto velocemente. Dove finiscono quando capisci che non sei in grado, pur ripercorrendo a ritroso il cammino, di ritrovarli? Nel vuoto? Per sempre? Chi porta a termine quelle analisi che svolgi chiacchierando tra te e il tuo io più autentico? È uno spazio di silenzio, di reale solitudine a cui non rinuncerebbe mai: paure, progetti, ricordi, la ninnananna della mamma nella testa e il desiderio di addormentarsi come quando era bambina: quel senso di protezione, quella fiducia nel futuro, quella inconsapevolezza del male che ha fatto, che si è fatta, che ha lasciato le facessero. Stasera si sofferma su un’idea soltanto, cerca, almeno, di tenere il pensiero fisso: l’uomo è ciò che sa, inevitabilmente. E lì, al buio, la spaventa la vastità dell’immenso. Di ciò che è il Sapere e di ciò che dovremmo acquisire, memorizzare, saper ripescare nel cassetto delle conoscenze. Davanti a questo terreno sconfinato, si sente nulla. Non sa nulla. Si chiede se da sveglia farebbe certe congetture, poi si ripete che è sveglia. Già e non ancora. Questa è la dimensione che vive: tra reale e onirico. Forse è la vita stessa a essere tale. Sospesa tra quello che siamo stati e che vogliamo dimenticare. Tra quello che abbiamo avuto e che ci manca. Irrimediabilmente. Protesi verso quello che crediamo sarà il futuro, temendolo. Verso quello che pensiamo di meritare e che faremo di tutto per ottenere e trattenere. Ma il bambino, dal fiume, torna a casa solo con le mani bagnate.

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