Добавил:
Upload Опубликованный материал нарушает ваши авторские права? Сообщите нам.
Вуз: Предмет: Файл:

Italians_Una_giornata_nel_mondo

.pdf
Скачиваний:
12
Добавлен:
20.03.2016
Размер:
4.19 Mб
Скачать

pensando che non può essere già passata un’ora. L’infermiera getta uno sguardo fugace nella mia direzione e senza riuscire a trattenere un sorriso dice: «Il camice va infilato all’incontrario». Torno in bagno, mi sfilo la tovaglia di carta e la reinfilo alla rovescia, cioè alla dritta. Potrei ridere per ore al pensiero dei medici in camera operatoria che mi trovano col camice all’incontrario, ma sono troppo agitata per ridere. Ma forse una risata me la faccio, mi farà bene.

121

Oggi non mi alzo

Lorenzo Belletti

Oggi non mi alzo. Non-mi-al-zo. Non perché abbia ancora sonno, ma non ho fame né sete, non sento la necessità d’alzarmi e non m’alzerò. Indico la prima giornata del non-mi-alzo. Potrei accendere lo stereo, sì, un po’ di musica non ci starebbe male. Il problema è che allo stereo come ci arrivo? Mi dovrei alzare, ma sarebbe come trasgredire alla prima regola... vabbe’ trasgredire, mi alzo, faccio partire la musica e torno qui, il mio non-movimento inizierebbe da dopo il gesto di inserire il cd. Certo che, se dovessi esser coerente... sì insomma, non potrei. Ma poi chi mi vede? C’è forse qualcuno che mi controlla? E soprattutto mettiamo che io abbia voglia di cambiare la prima regola, che ne so inserendo una postilla, dove starebbe il problema? Insomma la prima regola mi è venuta d’impeto. Non c’era ancora il quadro completo del progetto quindi in linea di principio penso si possa fare anzi, ne sono certo! No. Non si può fare. Dovevo pensarci prima. Ho detto non mi alzo e non mi alzerò. Ma poi per quanto? Qui devo stare attento se no rischio di fare lo stesso errore. Per una stupida regola rischio di rimanere tutto il giorno a letto. Devo decidere un tempo, ci vuole una seconda regola. Dunque che ore sono adesso? Le 9.20. Ok fino alle 10.20 a letto. No, aspetta. La sveglia era suonata alle 9 quindi si fa fino alle 10. Che cavolo, se no vuol dire che mi son perso questi primi 20 minuti, mettiamo che questa giornata non-mi-alzo non mi piaccia almeno tra 40 minuti son fuori; se vedo poi che mi prende bene, aggiungo una postilla alla regola numero 2 ed è fatta, tipo che ne so: incasodisoddisfazione c’èlapossibilitàdicontinuarela MALEDETTAGIORNATA NONMIALZO periltempochesivuole... in questo modo appena mi rompo le palle, zac, me la filo. Sono un genio! Il campanello. Eh... non mi posso alzare. Torneranno, poi al massimo se fosse stato qualcosa di urgente mi avrebbero telefonato. No, nessuna chiamata persa. E se fosse Chiara?

122

Urlo vediamo se mi sentono. EHI. Nulla. Sì, ma se fosse stata...

Trovato! La chiamo e le chiedo se era lei. Telefono spento. Cazzo!...

e son solo le 9 e mezza...

123

Il bar prima della fine del giorno

Marco Baroncini

Che già uno alla mattina ha la testa in conflitto col resto del corpo, e allora ti trovi ammucchiato insieme ad altre miriadi di scimmie parlanti alla ricerca convulsa di consumare la colazione al bar. La multinazionale del cornetto ci obbliga a questa dieta mattutina, tutti in fila con le uniformi naziste da impiegati, manager o quadri, ovvero in tuta, con lo zaino in spalle e l’Invicta coi libri universitari, tutti uguali e relegati in un cubicolo a ordinare, costretti a palleggiare fra la cassa e il bancone, destra sinistra, vai chiedi, fai lo scontrino vai di là a scegliere perché ancora non sai cosa vuoi, torni indietro, paghi con qualche spiccio o i buoni pasto. Serve a qualcosa, la colazione al bar? Detestabile consuetudine dettata dalla Compagnia del caffè. A passo d’oca scivoliamo nella routine del caffè: macchiato, senza macchia e paura, corretto, incorreggibile; marocchino nonostante il nostro razzismo latente, poco convinti quando pronunciamo quella parola evocatrice di semafori e ambulanti. La mattina continuiamo a rimbalzare, zucchero-zucchero di canna-dietetico-senza zucchero e al via le prime battute dettate dal senso comune. E continuiamo a finanziare la multinazionale del consumo a furia di croissant, brioches, cornetti crema-cioccolato- nutella-marmellata, occhi di bue, ventagli; o peggio tramezzini con ogni ben di Dio, panini imbottiti, pizzette, rustici... il dietologo impazzisce al nostro contatto telepatico e intanto con 60 centesimi ci togliamo lo sfizio, mentre l’80 per cento del pianeta preferisce contenersi suggendo latte macchiato da sangue e carestia. E io intorpidito ancora dalle ore notturne, ridacchio e lascio smorfie di disappunto, mentre la giostra della colazione procede imperterrita, ultimo spiraglio di libertà prima di otto ore di relazioni, riunioni, fra cravatte e giacche di fustagno. Un colpo alla spalla mi desta dalla visione di dolore per questo carillon senza fine: «Prendi un caffè?». «No grazie» rispondo con tono solenne, «ho smesso.»

124

Il mercatino delle pulci

Elena Scarmagnan

Dalle 9 alle 10 su Rete Italia fanno Il mercatino delle pulci. Oggi non solo lo ascolto, ma lo registro con la telecamera, così ne posso fare un file da mandare in Italia. Telefonano sempre degli immigrati italiani che sono venuti a lavorare in Australia almeno trent’anni fa. Il sottofondo musicale ha il suo fascino: una mazurka interminabile. In linea c’è Maurizio da Melbourne. Maurizio ci terrebbe a vendere due lampadari in ottone, uno con le finte candele, l’altro con le bocce, a 55 dollari trattabili ciascuno, e lascia il suo numero di telefono. La signora Maria da Sydney vende «una scooter di colore rosso, quasi nuova, funzionante, bella». Alla domanda «Che cilindrata?» risponde: «Non lo so perché non ci capisco... ma chi lo vede lo capisce che è bella, c’ha anche il basket davanti, che ci puoi mettere le cose tue». Si scopre più in là nella telefonata che si trattava di un veicolo a quattro ruote per anziani e disabili. Giovanna da Melbourne vende 26 vasetti di vetro a 2 dollari ciascuno: «Sono buoni come bomboniere: per fare un ingaggiamento (da engagement, fidanzamento), pure una cresima... So beautiful!». Tonia da Sydney vende una tovaglia lunga 3 metri, ricamata a mano a punto croce, per 100 dollari trattabili. «Il numero di telefono ce lo posso dire in inglese? Che a volte in italiano mi sbaglio.» Salvatore vende tre palme alte 15 metri perché ci hanno fanno il nido gli ibis e non lo fanno più dormire. Lidia vende delle pancere nuove perché ha fatto «il cambiamento della vita» e non le vanno più bene. Teresa chiama perché la settimana scorsa aveva messo in vendita una valigia per 10 dollari, e chi è andato a vederla «voleva quella che portano questi agenti ricconi: voleva le rotelle, quello per tirarla...

chissà che cosa si aspettava!». Si offrono inoltre sei sedie di velluto dorato, cappotti di lana e di pelle, dischi di Gigliola Cinquetti, videocassette, lamiere «di good condizioni» e fotoromanzi dal 1975 in poi per ragazzi che vogliano imparare la lingua italiana.

125

Una bugia per Sant’Edoardo

Flavio Fucili

Avevo ancora venti minuti prima del lavoro. Per riprendermi dal solito giro (sveglia-colazione-vestirefiglio-scuolamaterna-saluti e baci e pedalata per il centro), decisi che un caffè in piedi da «Lino» ci poteva stare. Fanno l’Illy. La tazzina mi poteva dare la spinta definitiva per la giornata. Entrai, salutai. Al bancone c’era la signora Emilia. Non aveva una bella cera, e non era perché va per i settanta. Tempo un minuto e sorseggiavo il mio caffè. Intenso. «Sai che giorno è oggi?» mi fece l’Emilia. «Lunedì» risposi con poca lucidità. «Oggi è Sant’Edoardo...» disse piegando la bocca a raccogliere il dolore di quel nome. Edoardo, infatti, era il figlio diciassettenne di Lino ed Emilia. Si schiantò quasi vent’anni fa in motorino. Lo conoscevo, mi stava anche sul cazzo. Era arrogante, rissoso, sapeva giocare al pallone. E mi pestava. Ma queste cose alla madre non le avevo mai dette. Solo il padre, Lino il gran barman e re dell’espresso in franchising, sapeva che a qualche torneo avevamo giocato insieme. I genitori parlano sempre dei figli. Fissai la tazzina rigirandola un po’. «Due giorni fa l’ho sognato, sai Emilia?» Buttai lì questa frase senza pensarci molto. Non era vero. Certo, di tanto in tanto pensavo a quel ragazzo, ma da lì a metterlo nei miei sogni ce ne passava. Lo sguardo della madre s’illuminò. Io continuai: «Vincevamo un torneo di calcio... Gol! Edo segnava e mi sorrideva. Era felice!». Lino si attaccò con lo sguardo alle mie parole mentre Emilia, sporgendosi dalla cassa, cercò commossa la mia mano. «Rideva? Davvero?» «Sì, era contento.» I due genitori si scambiarono un sospiro di unione. Lasciai sul banco un euro e strinsi la mano di Emilia. «Vuol dire che sta bene» disse lei. «Lo credo anch’io» dissi con voce ferma per coprire l’ennesima bugia. Poi, guardando l’orologio e salutando tutti, mi allontanai. Non ho mai capito perché dissi quella bugia, ma credo che sia stata una buona occasione per fare star bene della brava gente. Ricominciava la settimana. Avevamo vinto una partita.

126

Il mattino ha l’oro in bocca (come gli zingari, del resto)

Marcello Moretti

Le nove. Di già? Stavo sognando che ero entrato in una banca. Era notte e l’ingresso era spalancato e incustodito. Ero entrato e avevo telefonato alla polizia per segnalare il rischio di furti. Finiva che il direttore mi ricompensava con diecimila euro. Per lui nulla, per me un anno di vita. Il guaio di leggere fino a fare le ore piccole è che il mattino dopo ti svegli rincoglionito. Per fortuna oggi entro a scuola a mezzogiorno. Ho meno ore dell’anno scorso e la supplenza finisce a giugno, ma non mi posso lamentare. Carlo, che rispetto a me ha il dottorato e almeno una decina di pubblicazioni in più, deve partire per la Scozia perché qui non si riesce a trovare un assegno di ricerca. Nessuno ha i soldi per fargli studiare il suo Ungaretti, o forse Ungaretti non interessa più a nessuno, a parte gli scozzesi. La settimana scorsa l’ho citato in classe. Si sono messi a ridere: «UngaCHI?», «Gamberetti?!». Scherzavano, non sono così ignoranti... spero. Le nove e mezza. Via, mi alzo. Mi faccio la doccia... come non detto. Bagno occupato. Ma posso io, a trentaquattro anni suonati, convivere ancora con tre studenti? Vado a comprare il latte dai cinesi. Mi avvicino alla cassa per pagare. La cassiera ha appena finito di discutere con uno zingaro che è andato via. «Mmh, questi zingari! Li odio!» «Perché, scusi?» «A lei piacciono quelli che rubano e non fanno niente da mattina a sera?» «No, ma non è detto che siano tutti così. Quello stava rubando?» «No, ma si aggirava fra gli scaffali... Ma cosa crede? Noi qui abbiamo tutte le telecamere (lo dice indicandomi i monitor appesi alla parete in alto). Non siamo mica come gli indiani! Vadano a rubare da loro!» Le dieci. Invio il racconto per «Italians». Chissà se va bene. Certo, come si fa a scrivere duemila battute su un’ora della mia giornata? Neanche Woody Allen!

127

Chi l’incosciente

Antonia Torcasio

Nove-dieci del mattino, prima ora in ufficio. Arrivi e saluti i colleghi: «Good morning» dici. Un timido saluto di risposta da alcuni. Seduto, guardi fuori dalla finestra: cielo bianco, pioggia, silenzio...

e non è oggi, non è domani, è quasi sempre. Eppure non sei poi così tanto lontano: a circa 990 chilometri a nord di Milano, meno di quanto disti Milano da «casa». Eppure il problema ora non è solo il tuo accento e la «h» aspirata. Ora senti che la terra umida che calpesti ogni giorno non ti appartiene. E non ti appartiene questo autunno perenne nell’aria e nelle persone che ti stanno attorno. Ora non è più «Calabria, terrone», ora è «Italia, pizza mafia mandolino». Senti di voler continuare a combattere, di dare un senso a tutti i tuoi sacrifici e quelli dei tuoi genitori, sulle cui facce ora vedi rughe che non c’erano prima. Quando con l’incoscienza di una ragazzina dicesti: «Mamma, papà, io vado a Milano a studiare ingegneria». E allora ci sono cose che non capisco. È ancora incoscienza quella che mi ha portato a dire ancora «Vado all’estero. Per rimanere in Italia avrei dovuto fare la velina»? Provo invidia, per la prima volta nella mia vita provo invidia. Verso le persone sedute accanto a me. Non c’è una guerra civile nel loro paese come non c’è nel mio. Le loro famiglie non soffrono la fame, neanche la mia. Suppongo abbiano studiato con devozione anche loro. E allora perché sono loro offerti contratti a tempo indeterminato, hanno già o stanno per comprare casa, hanno già o stanno per costruire una famiglia, sebbene più giovani di me, i loro genitori sono a massimo un’ora di distanza in macchina? Sono certa però di essere diversa da loro. Perché invece sono come Bruno che vive a Exeter, Giulia a Londra, Davide a Zurigo, Alessandro a Maastricht, il mio amico Ciccio appena partito per Dublino, Mauro, Cinzia, Silvia, Donato, Eleonora con me qui a Leuven. Noi gli incoscienti?

Ore 10

Соседние файлы в предмете [НЕСОРТИРОВАННОЕ]