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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Ore 05

Solo un sussurro

Sara Passerini

Ore cinque. L’emozione che si prova tornando a casa quando sorge il sole, stanchi, poco lucidi, innamorati. Solo tre desideri: una doccia, un corpo caldo a fianco, una sigaretta con le ultime parole prima di addormentarsi. Quel fresco che si sente uscendo dai locali affollati di fumo e sudore, il profumo di un’altra notte che finisce, l’aggrapparsi a una mano appiccicosa, il sentire il peso di una notte deliziosa sugli occhi. Camminare in mezzo alle strade, ancor meglio se è piovuto di nascosto, prima; così l’aria sembra pulire i polmoni e le ultime energie sono perfette per infastidire le pozzanghere. Guardare avanti e vedere il sole, lento a salire – guardare dietro e vedere che è ancora notte. Giorno embrione, notte terminale. Ore cinque, pronti a tornare a casa. Rendersi conto di aver perso una maglia e ridere perché si è felici, perché la maglia dimenticata è un baratto con il positivo che si sente, perché si poteva perdere il portafoglio, perché anche il mondo che va a rotoli ci ha concesso momenti superlativi. Usciamo dal locale. Sordità. Sorrisi ebeti tra di noi. Cervelli lenti. Amore ovunque. Nessuna macchina, silenzio, profumi di risveglio. Mi abbracci con la destra, chiudiamo anche l’ultimo bottone della giacca. Infilo la mano nella tua tasca, tiepida almeno quanto le coperte che tra cinque minuti ci proteggeranno. Ore cinque, pianifichiamo il nostro futuro in silenzio, mentre si fa giorno e camminiamo ormai nel sogno. Usare la parola oggi riferita a ieri, ripassare le cose da fare domani che è già oggi. Ore cinque, quasi sei, ormai. Casa, rifugio ospitale. Shhssshh, non svegliamo nessuno. Doccia di tre secondi, tanto per. Ultima sigaretta per congedarci dal sogno vissuto e sprofondare in quello incontrollabile del sonno. Musica impalpabile per cullarci ancora un istante. Seminudo e delicato mi baci la fronte, poi ti giri. Piumone fino agli occhi. Respiro sulla tua schiena e chiudo gli occhi. Solo un sussurro: buonanotte. E veloce nasce il giorno.

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Correndo per la strada

Lorenza Pravato

Non che non senta la sveglia, fingo di non sentirla per impietosirlo; ma non lo impietosisco mai. Anche stamattina, alle cinque, mio marito mi porta a correre. È una tortura, ma serve. Non tanto per la salute o l’aspetto fisico: in certi momenti della vita serve proprio esser veloci. Alle cinque e venti del mattino, in un paio di braghe ridicole e una maglietta che neanche mi son presa la briga di stirare («tanto alle cinque chi mi vede?»), mi espongo al ludibrio dei triestini annaspando per le strade della loro città. Rimpiango il mio periodo spugna di mare, lo rimpiango sempre su per la scalinata di Santa Maria Maggiore. Poi mi giro. Mi giro perché potrei tirar le cuoia su questi gradini e voglio gettare un ultimo sguardo all’uomo della mia vita, nonché, possibilmente, instillargli almeno un po’ di senso di colpa per ciò che mi sta facendo fare. È qui che lui mi frega: ha l’aria così fiera di me che io ce la metto tutta per dargli una soddisfazione e non essere un peso per lui quando arriverà il momento di essere veloci. A rotta di collo giù per via di Donota, sfioriamo il ghetto e trafiggiamo piazza Unità. Piazza Venezia, torniamo per le rive. Un quarto alle sei, strambiamo su molo Audace, dove l’andare è splendido, perché conduce all’infinito, e il tornare meraviglioso, perché offre la città intera. Meno ciance e più fiato, rossa! Bisogna spingere per star sotto l’ultimo tempo. Rettilineo finale. Non finisce mai. E adesso «è tardi, ma possiamo farcela se corriamo» e «non sono i polmoni, è il tuo cuore che ha in mano il tuo destino». «Correremo finché non crolleremo», «nessuna ritirata, nessuna resa» e tutte quelle belle cose lì, che ci ha insegnato lui e che ora mi suonano in testa. Sbam. Pugno sulla porta della Tripcovich otto minuti prima delle sei. Perdo le bave, non riesco a parlare, ma mio marito fa «sì» con la testa. Cinquantun secondi meno di ieri. L’allenamento per la conquista della transenna del prossimo concerto di Springsteen è appena iniziato.

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Come allora

Carlo Urbini

La notte è appena trascorsa, come trent’anni fa, tra bella musica, sudore, stanchezza e due bicchieri. Il dj continua a proporre la sua musica curvo sulla consolle. Spesso alza gli occhi e fissa la folla danzante che si muove come un’onda colpita da troppe correnti. Come allora. Ain’t no stoppin’ us now We’ve got the groove Ain’t no stoppin’ us now We’re on the move. Come allora il volume della musica è forte ma fedele. Adesso mi infastidisce un po’. Mi sposto verso il bordo della pista. Ballo. Ballo come posso e tu con me. I brani si intrecciano tra disco e funky formando un unico interminabile pezzo. Nasty, ah ah You’re so nasty, do-do-do Nasty, ah ah. Come allora la pista è ancora piena, una fauna variegata che balla con movenze anni Settanta. Ai più non riescono e molti si dondolano come possono. I passi sono goffi, i capelli mancano, le pance no. Si salvano le donne che sanno ancora muoversi bene. Anche tu balli leggera, davanti a me, ancheggiando e liberando le braccia sulla pista multicolor... come allora. Let the music play I just wanna dance the night away Here, right here, right here is where I’m gonna stay All night long, ooh ohh. Come allora, a quest’ora, sale dal mare un odore particolare di salsedine, oleandro e pino... e noi lì, di fianco alla piscina, appoggiati alla balaustra ad aspettarlo con la fronte alta e gli occhi socchiusi. Le luci della discoteca pian piano si spengono e lasciano più spazio al bianco dei muri e dei divani. Stancamente un addetto sistema quella specie di cannone luminoso che per tutta la notte, con un fascio di luce, ha cercato chissà cosa sul mare, là dove l’orizzonte si confonde col cielo... come quella notte. Your Papa was a rolling stone yeah Wherever he laid his hat was his home. Come allora ti sto vicino ma senza tenerti la mano perché adesso mi vergogno un po’. Ti guardo negli occhi, con un sorriso copro un altro sbadiglio e piano sussurro: «Sono già le cinque; è ora di tornare». Trent’anni fa ti dissi: «Sono solo le cinque, dove andiamo?».

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Italia-Germania 2-2

Davide Schenetti

Venerdì. Italia-Germania 2-2. Anche questa settimana si va ai supplementari. 5.29. L’inizio è dato dal fischio odioso della sveglia. Lui rotola in bagno e, da lì, nei suoi jeans stropicciati. Si spalma sulla sedia e sembra la marmellata sulla fetta di pane. 5.44. Fine primo tempo. Si sente largamente in vantaggio e torna in bagno ad alleggerirsi. 5.49. Fine della pausa. L’avversario ripropone il suo modello prevedibile e annunciato: il regionale 5413 che si muove secondo uno schema banale chiamato orario dei treni. Lui punta sull’anatomia: gambe e culo, le prime mostruosamente allenate, il secondo metaforicamente grosso. E sull’iPod: dal ’93 lui non ha orologi da polso e si orienta a playlist. 13 minuti fino in stazione: circa tre canzoni e mezzo. Sbircia nella sala del vicino al primo piano, anche lui già in piedi. Cinque-e-cinquantuno. Più tredici. Fa le sei-e-zero-quattro: We can! Arriva Leaving New York ; bisogna ripensare lo schema. Canzone da oltre 4 minuti: addio punti di riferimento. Poi i Rem salutano, incalzati dai Phantom Planet. Lui canta a sei tonsille alla California che stiamo arrivando e intanto fende la nebbia: già al ponte e, forse, sono passati solo 8 minuti. Prega il dio dello shuffle di dargli una canzoncina da due giri di lancetta per ritornare in equilibrio. La Banda Osiris, please. Invece arriva, triste presagio, La locomotiva. 7 minuti: lo Stairway to heaven dei poveri. Gli aumenta il fiatone. Fan.Ku.Lo. E corre, corre, corre la locomotiva. Sankt Lorenz è ancora là, lontano e definitivo come un golden gol. La storia ci racconta come finisce la corsa: la bici deviata lungo una strada contromano. Lui evita per un pelo di decorare due Bmw. Il cuore a mille, le forze a zero. Giù nel sottopassaggio e poi su al binario. Le porte si chiudono. La Deutsche Bahn colpisce in contropiede. Lui aspetterà il prossimo treno. Ita- lia-Germania 2-3. Lunedì si ricomincia.

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L’autobus delle 5.30

Domenico Margiotta

Dal momento del risveglio all’arrivo alla fermata, l’unica consolazione è potermi rituffare nella coltre di quel letto volante. Vestito e sciacquato faccio una fugace colazione, poi la sigaretta e subito in bagno. Zaino in spalla e infagottato scendo le scale chiudendo la porta con arroganza. La strada è lunga e, a ogni passo, salta imperiosa la volontà di raggiungere la meta. Il freddo è sempre più insistente e la pelle s’accappona per trovare quel sospirato nido. Sono finalmente arrivato e, come di consueto, l’autobus delle 5.30 è in perfetto orario. Salgo, buco il biglietto e mi siedo nel primo posto libero, guardando le nuvole incombenti. Mi sento al sicuro da quel mondo ostile, al caldo e protetto da lamiere impenetrabili. In pace e senza alcun pensiero, mi lascio cullare dalle dolci parole che le ruote lasciano sulla strada allagata. L’autobus è semivuoto e le poche persone che lo ambiscono, vogliono trovare quel limbo di pace eterna perso per sempre e che insistentemente il calore umano ricorda. Il tragitto dà sicurezza, a ogni curva la sensazione di vampate infernali e materne si rafforza sempre più. Fratelli inconsapevoli di esserlo, rigettiamo le paure, cristallizzandole in ricordi anch’essi persi nel baratro dei tempi. Arrivati al capolinea, la consapevolezza di figli denigrati si sfalda e, poggiando il piede fuori, ritorna la meccanicità del viver quotidiano. Così come muli trainiamo noi stessi verso quello che sembra un dovere, ma che invece è uno sviare il nostro vero obiettivo, divenire esseri di pura luce. Allora caoticamente cerchiamo nei raggi del sole riflessi sull’Arno, dall’alto della passerella, qualche scampolo di vita armoniosa, che la paura di sentirsi naturali e liberi impedisce. Ci limitiamo a guardare la bellezza del mondo, a dare ordine al nostro caos interiore che fa aumentare la posta in gioco. Arrivato al solito ritrovo, il qualunquismo diviene un nuovo modo di scappare dall’ansia di vivere che m’anima.

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Le cinque di mattina

Laura Cerioli

Le cinque di mattina. La sveglia suona, apro appena gli occhi e cerco di capire dove sono. Napoli, Bari, Ancona? Da quando una sera dello scorso gennaio, in macchina verso l’aeroporto, quello che di lì a breve sarebbe diventato il mio capo mi ha proposto di passare dal mio ufficio all’interno della sede centrale a un nuovo ruolo sul campo, la vita è così. Racchiusa in una valigia sempre pronta come surrogato delle piccole certezze cui ognuno di noi si affida per non perdersi. Gli occhi si aprono un po’ di più, quel che basta per capire – d’accordo, sono a casa, devo alzarmi, il volo non aspetta. Vado col pilota automatico, ancora addormentata, ma ormai ogni gesto è parte di una serie che si srotola senza che sia neppure necessario pensare. Mi alzo, mi preparo velocemente, afferro la borsa del computer e la valigia. Penso come ogni volta che, se solo capitasse un insignificante imprevisto, la mia piccola sequenza perfetta si incepperebbe. Stranamente non è mai successo, per lo meno non alla mattina. Tornando verso casa ho perso treni e aerei, ho sbagliato strada e ho pensato che non sarei mai arrivata alla meta. Ma alla mattina tutto è come attutito e scivola via tranquillo. L’autunno pavese si fa sentire, con la foschia mattutina che sembra una coperta distesa sui campi circostanti, con l’umidità che ti si appiccica addosso come una ragnatela. Salgo in macchina, il riscaldamento fisso su un clima tropicale per ricreare ancora per un poco la sensazione di stare al calduccio sotto il piumone. Tra poco inizierà la giornata, di corsa tra l’aeroporto e l’ufficio, tra il telefono che squilla e le scartoffie da smaltire che non si capisce come sembrano moltiplicarsi da sole nel corso della notte. Ci saranno le chiacchiere con le colleghe e la telefonata serale al mio amore per raccontarci ogni dettaglio della giornata come se fosse vicino a me ad abbracciarmi. Guido e respiro l’ultimo momento di silenzio tutto per me. Sono pronta, un sorriso e si parte.

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Gita in Costiera

Francesco De Cesare

Ma chi me lo ha fatto fare. Me lo ripeto in continuazione, mentre salgo su questa ripida collina della Costiera amalfitana. Sono le cinque, tira vento e davvero non si nota che l’estate è arrivata. È ancora buio e l’attrezzatura mi pesa. Guardo i miei amici e mi accorgo che pensano anche loro le stesse cose. Dobbiamo raggiungere la sommità: da lì nessuno può vederci ed è meglio così. Niente occhi indiscreti: ciò che stiamo per fare richiede un po’ di tranquillità. Siamo in cima, albeggia e da qui si vede uno spicchio di golfo: un panorama che davvero mi mozza il fiato o forse è solo l’effetto della salita. Adesso ricordo cosa ci faccio qui. Sessant’anni fa su questa collina si è combattuto. Americani e tedeschi se le sono date di santa ragione e le tracce della battaglia sono ancora visibili. Durante il primo sopralluogo, giorni fa, il metal detector sembrava impazzito, ma ciò che ci interessa veramente si trova oltre la collina, poco più in basso. Lì abbiamo trovato un piastrino di riconoscimento. Forse in quell’angolo riparato di un campo che guarda dritto verso il mare, giace da tempo un soldato sconosciuto e noi siamo venuti per lui. Delimitiamo l’area dello scavo e cominciamo a spalare delicatamente. Dieci, venti, trenta centimetri ed ecco che affiora qualcosa. È un elmetto e sotto l’elmetto poveri resti umani. È un soldato, come ci aspettavamo, uno di quelli venuti a morire su questa collina sessant’anni fa. Ci fermiamo e rimaniamo assorti, in silenzio. Chi se la sente prega sottovoce, altri, più freddamente, mettono mano al telefonino. Bisogna comunicare il ritrovamento alle autorità per consentire ai parenti, se ce ne sono ancora, di riavere le spoglie mortali del loro congiunto. Eppure per un momento rimaniamo assorti pensando di rimettere tutto a posto così come lo abbiamo trovato. Ci sembra di aver disturbato il sonno di questo ragazzo: questo è un posto bellissimo per riposare in eterno, che diritto abbiamo noi di intrometterci? Poi però ci vengono in

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mente le lettere disperate che le madri e i figli dei dispersi scrivevano ai parroci di qui per avere una indicazione, un conforto, una tomba su cui piangere. Mi dico che è per loro che lo faccio e mentre ci penso mi siedo, chiudo la telefonata con il maresciallo di turno e quasi senza accorgermene mi unisco alla preghiera.

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