
Italians_Una_giornata_nel_mondo
.pdfCalma padana
Luke Jockeys
Le quattro del pomeriggio. Un’ora morta in ufficio. Tutti i clienti preferiscono venire in mattinata. Avete mai notato quanto sono animate le città all’inizio della giornata? Sarà che ci sono più energie, più voglia di levarsi le incombenze. Fatto sta che quando cerco di fissare un appuntamento al pomeriggio spesso mi sento rispondere: «Preferirei al mattino, oppure verso sera...». Cos’è, la pausa pranzo ci uccide? Tutto il cervello è impegnato nella digestione? E infatti una cittadina di provincia come la mia nel primo pomeriggio è praticamente svuotata, come se la sonnolenza post prandium fosse palpabile, una nebbia (che qui peraltro è di casa) che avvolge tutto. I cittadini misteriosamente spariscono, nelle loro tane. E io sono qui, nel mio bunker-studio. Sarebbe il momento ideale per portare avanti certi lavori, per studiare nuove carte approfittando di questa calma quasi irreale. E così faccio, tuffandomi nelle scartoffie. Specialmente se non ho pranzato a casa di mia madre... Che per esprimermi il suo affetto mi rimpinza come un maialino all’ingrasso, offendendosi se non le faccio onore... In questo caso per me è veramente dura rientrare in ufficio, i primi minuti li vivo in uno stato di semicoscienza. Oggi è uno di quei giorni. Allora, mentre faccio finta di sorridere alla segretaria che mi parla a raffica del cliente delle 17, aspetto con maggior piacere del solito un collega che verso le quattro e mezza si affaccia da me «per offrirmi un caffè». Sono anni che abbiamo questa abitudine. Poi, come sempre, al bar farà finta di tirare fuori il portafoglio, molto lentamente, e pagherò io. Ormai mi sconvolgerebbe il contrario...
211
Ore 16.00. Un giorno qualsiasi di fine 2008
Ilaria Mascetti
Siamo al parco: ti guardo correre felice tenendo il cane al guinzaglio e sento che questa è la vera essenza della vita. Da quando ci sei tu, bimba mia, il cerchio si è chiuso e la vita si dispiega in tutta la sua pienezza e meraviglia. Basterebbero anche solo pochi di questi istanti di beatitudine fine a se stessa perché ne valga assolutamente la pena. Sei l’immagine stessa della spensieratezza e della voglia di vivere, come dovrebbe essere per noi tutti, non fosse che tutto viene sommerso giorno dopo giorno dagli eventi negativi e dai problemi, che, ahimè, la vita comporta. Per cui spesso ce ne dimentichiamo... Non è facile assaporare questi momenti che la vita ci offre, presi come siamo dai problemi quotidiani, e ce ne sono, e quanti, soprattutto ultimamente. Finita la sensazione che fosse terrorismo esagerato e inutile, ecco che la crisi reale, quella vera, sta arrivando, o forse ci siamo già dentro fino al collo! I mutui impazziti, gli stipendi che non bastano, il calo pauroso prima di generi secondari e poi perfino di quelli primari (il cibo), le spiagge non al completo – nemmeno a Ferragosto –, le banche che crollano, la borsa impazzita, la sensazione d’essere retrocessi di una classe sociale. Stiamo intravedendo situazioni che i più fino ad ora hanno solo lontanamente immaginato e sentito come riguardanti qualcun altro; è finito il bengodi, e sarà meglio esserne consapevoli al più presto e adeguarcisi. Ma ti osservo e m’insegni ciò che la vita ci porta a dimenticare crescendo: in fondo rimuginare continuamente sulle stesse cose non è d’aiuto. Perciò siamo al parco in un pomeriggio qualsiasi, e non stiamo facendo niente di speciale: ma questo in fondo è ciò che conta veramente, questi istanti che la vita ci dona e sta a noi assaporare e godere fino in fondo e conservare nel nostro tempo interiore, quello immutato e immobile, quello che nessuno, nemmeno la mancanza di certezze e di benessere economico, potrà mai toglierci.
212
Disabituato al pomeriggio
Marco Sostegni
Mi sembra di essere disabituato al pomeriggio. In novembre di qualche anno fa ero con la mia professoressa di educazione tecnica delle medie e con suo marito, intorno a noi molte persone. Non era un momento allegro per nessuno perché eravamo al funerale di un’anziana signora che aveva un sorriso buono e dispiaceva a tutti sapere di non vederla più. Si aggiungeva, al rimpianto dei miei tempi delle medie d’inizio anni ’80 la sorpresa per la foto di una giovane sorridente tra pupazzi, lettere con grafia incerta e grandi baci... chi era quella ragazza il cui nome non mi era nuovo? La professoressa di educazione tecnica mi aveva ricordato un fatto di cronaca nera che avevo seguito in tv e sulla stampa locale in maniera distratta e distante. Ora, davanti alla sua foto, al suo sorriso ancora giovane e spensierato non ero né distratto né distante. Anzi. Mi ricordo spesso quel pomeriggio di novembre e di quando, per la prima volta, mi sono sentito un po’ disabituato al pomeriggio.
213
A Barcellona una domenica di dicembre
Patrizia La Daga
La scuola è una palazzina bianca a due piani e si estende su un terreno vasto, dove gli spazi di gioco per i più piccoli si alternano ai campi da calcetto o da basket per gli studenti più grandi. Dalle aule al piano superiore nelle giornate serene si vede il mare e i bambini spesso ci vanno in gita con le loro maestre. “Siamo fortunati” penso ogni pomeriggio, quando alle quattro esco di casa per andare a prendere i miei figli. Abitiamo a un passo dalla scuola, nel quartiere più prestigioso di Barcellona; a sette anni Lorenzo parla già tre lingue e Martina, che di anni ne ha solo tre, ha visto più mondo di quanto avessi fatto io a venti. Hanno amici di ogni nazionalità e colore e genitori uniti che si amano e li amano. Sono nati qui i miei figli, lontano da quella Milano d’asfalto in cui sono cresciuta e dove torno a salutare parenti e amici cinque o sei volte l’anno. Casa adesso è qui, in questa città compressa tra la collina e il mare, spagnola per gli stranieri, catalana per chi ci è nato, unica per tutti quelli che ci vivono. Casa è passeggiare in maniche di camicia sulla spiaggia una domenica di dicembre e poi fermarsi in un chiringuito a degustare tapas, mentre qualche turista nordico in costume si tuffa in mare come se fosse agosto. I bambini scalzi giocano a palla sulla sabbia, i calzoni arrotolati fino al ginocchio. Sudano. Nello stesso momento squilla il cellulare ed è mia madre che immagino raggomitolata sulla sua poltrona, avvolta in un plaid per proteggersi dal gelo invernale, mentre guarda Domenica In e dalle finestre di casa non vede che il grigio lattiginoso della nebbia padana. Parlo con lei e socchiudo gli occhi per proteggermi dal sole e forse dai pensieri. È il riverbero o sono lacrime di nostalgia? Il dubbio svanisce mentre con lo sguardo scorgo la scia di un aereo, forse va a Milano, penso, mille chilometri sono un’inezia, un’ora di volo, poche pagine di un libro. Sono il prezzo che pago per poter vedere il sorriso dei miei figli ogni pomeriggio alle quattro, quando racconto
214
loro che dalla mia scuola non si vedeva il mare. Non vivrò mai più dove sono nata. Perdonami se puoi, mamma.
215
Festa del Santo Patrono di Cologno Monzese. Ore 16.00 circa
Stefania Del Percio
«Signori, raccolgo fondi per una Onlus che fornisce tramite medici e infermieri assistenza a domicilio ai malati terminali.» E le risposte che ho sentito a metà pomeriggio, quando la gente si era riposata dopo un lauto pranzo domenicale e già con la bustina di noccioline in mano o il palloncino attaccato alla carrozzina sono state le più svariate. «Ringraziando Dio io ora non ho bisogno di questa associazione» (detto con un sorriso che farebbe invidia a molti). «Malati terminali, mi scusi ma mi tocco i gioielli di famiglia... sa, la parola mi dà fastidio» (fastidio? No, non deve darle fastidio, caro signore... ma non vale la pena sprecare tempo per cercare di spiegare la sottile differenza tra infastidito e ignorante). «Le dico la verità: sono in giro senza soldi» (questa «scusa» in un’ora l’ho sentita almeno una dozzina di volte). «Faccio un giro e ripasso dopo» (chissà se la gente dicendomi così si allontana con la coscienza più pulita rispetto a coloro che mi dicono che non si sono portati il portafogli?). «Sono malato anche io e a me i soldi non li dà nessuno» (e sento che il signore distinto con il suo bel vestito e le scarpe lucide davvero è convinto di potersi paragonare ai poveri cristi mandati a casa a morire). «Io faccio già beneficenza a sette associazioni diverse» (a sette associazioni? Non saranno 11?). Mi rendo conto che non tutti hanno la stessa sensibilità quando si tratta di beneficenza. Mi rendo anche conto che non tutti possono dare un contributo perché arrivano a fine mese a stento. Infatti non mi dimenticherò di un signore anziano che, fermandosi, mi ha detto: «Prendo 500 euro di pensione, ne spendo 600 di affitto e se non ci fossero le mie figlie che sono degli angeli, sarei in mezzo a una strada». La cosa che non mi spiego però, è perché in un’ora ho sentito tutte queste bugie mascherate da scuse quando sarebbe stato così facile dirmi semplicemente: «No grazie, i miei soldi preferisco spenderli in noccioline e palloncini».
216
Domenica pomeriggio a un centro commerciale di Roma
Gianpaolo Perinelli
Oggi Valentina vuole fare acquisti e opta per il centro commerciale: vabbe’ la mia squadra ha vinto, le avversarie arrancano... posso rinunciare alla «pennica» dopo pranzo. Allo svincolo, zona Bufalotta, notiamo una fila interminabile di auto incolonnate, ma non disperiamo, forse molte escono o vanno altrove. Certo il colpo d’occhio non incoraggia, più ci avviciniamo e più rallentiamo. Sempre più scettici (e dopo un buon quarto d’ora di «anticamera») riusciamo a guadagnare il parcheggio, dove cogliamo in chiave postmoderna cosa volesse intendere Dante descrivendo le bolge infernali: un’u- nica, interminabile megacoda di macchine ferme, scene fantozziane di assalto all’unico, improbabile buco libero a ridosso della colonna di cemento, energumeni che non si limitano a martoriare l’inerme clacson (come se questo accessorio potesse, novello Mosè, dividere le lamiere) e si issano sul cofano per esprimere la propria opinione con urla belluine e vomitare improperi verso il prossimo (ma anche il precedente e il laterale). Vigilantes e/o parcheggiatori spariti, della serie battetevi e vinca il migliore, famiglie coi carrelli spalmate sui muretti per non sfiorare le macchine di quei gentlemen ed evitare di dover «contrattare» la vita di un pargolo per poter uscire vivi da questa prova da «tana delle tigri». Insomma, perché dobbiamo volerci così male per autorelegarci in un fortino di scalmanati, respirare i gas di tutti i tipi di veicoli a motore esistenti col pericolo pure di tamponare a 0,5 all’ora rendendoci pure oltremodo ridicoli? (E rischiando pure la pellaccia: visti i tipi tranquilli che girano non so se qualcuno si sarebbe accontentato della constatazione amichevole.) Torniamo così indietro per fare qualcosa di estremamente trasgressivo: abbandonare quel delirio e dirigerci al centro città, facendoci forza su un pensiero elementare: poiché tutta la popolazione urbana si sta accapigliando per entrare in un luogo fuori Roma, al centro regnerà la tranquillità!
217
Lorenzo
Maria Gatti
Milano ore 16.50 di venerdì 17 ottobre. Scrivo usando il portatile di mia figlia, i gomiti sul piano di vetro della sua scrivania. Davanti a me una finestra grande, e sul davanzale una schiera di ciclamini rosa e bianchi. Una sorta di skyline colorato. C’è ancora molta luce. Si sente prepotente il traffico della strada subito sotto. È incessante e monotono. Solo il ritmo del tram riesce a introdurre una nuova cadenza. Tutto nella norma, insomma. E invece no, c’è una novità. Di fianco a me, nella culla di vimini, stretto stretto nella sua copertina azzurra, c’è Lorenzo, dieci giorni di vita. Io sono la sua nonna. In questo momento ho il compito di vegliare su di lui, mentre mia figlia dorme con la porta della camera ben chiusa, stravolta dal ritmo incalzante di poppate, cambi di pannolini e consultazione forsennata di manuali sul pianto il mal di pancia la cacca il ruttino. Lorenzo dorme. Sembra un sonno profondo, e chissà cosa sogna. Dalla copertina spunta la sua testolina vellutata di biondo. Fa qualche verso, accenna un semisorriso, poi una smorfia, poi si stiracchia e tira fuori dal bozzolo una manina con le dita lunghe, sembrano quelle di una gallinella. Poi patapunfete si riaddormenta. Vorrei che si svegliasse per tenermelo un po’ stretto. Ho anche una nuova canzone da cantargli, si chiama la ninnananna degli animaletti. L’ho scaricata ieri sera e imparata a memoria stamattina sul treno, mentre venivo a Milano. Io ho lavorato per una vita a cento metri da casa, due mesi fa sono andata in pensione e ho iniziato a fare la pendolare. E benedico i treni i metrò e i tram che mi portano qui, sono un po’ sporchi e troppo affollati come dicono tutti, ma a me piacciono immensamente. Adesso Lorenzo si stira, ha afferrato il suo orecchio, lo strapazza un po’, poi lentamente riarriccia le dita lunghe, fa il pugnetto e si riaddormenta. Le campane della chiesa di fianco scampanano vigorosamente, direi troppo, ma lui non fa una piega, dorme con i lunghi occhi chiusi, e l’aria serena. Ecco, questa è un’ora bella della mia vita.

Ore 17