
Italians_Una_giornata_nel_mondo
.pdfLondra-Alghero sola andata
Pietro Lilliu
H13.00 Ctrl-Alt-Delete >> Lock. Pausa pranzo. Pranzo, bella parola quella! Poco si addice al contenuto del mio lunch box. Certo che i pranzetti della mamma me li sogno qui a Londra. Ma come mi ripeto sempre in questi momenti, non si può avere tutto dalla vita. Lavoro sicuro, indipendenza economica, serate a teatro, quando mai le ho viste giù da noi? Quindi testa china amico mio e viva il sandwich Blt con le crisps e la Coca. Ma poi capisco che non tutto è perduto, un raggio di sole ha appena illuminato lo schermo del mio Dell. Mi giro verso la finestra. Un venticello di tramontana ha come per miracolo spazzato via quelle nuvolacce tanto odiate. Non c’è un minuto da perdere. Ready, steady, go! Ed eccomi leggiadro a sorvolare la lunga fila di alberi dalle chiome rossastre che delimita il cortile dell’ufficio. La città non mi sembra poi così grande dall’alto e in men che non si dica eccomi sulla Manica e poi Parigi e Marsiglia e il mare ancora. E ripenso a quante volte ho ripercorso quello stesso tragitto con lo sguardo perso nel vuoto del solito volo low cost Fr 232. Quando poi intravedi l’Asinara ti senti già a casa. Il profilo dell’isola è mozzafiato. Quanti scorci e quante calette a ricordarmi spensierate gite di Pasquetta ad Alghero e Stintino con gli amici di sempre. Ed ecco mamma che accudisce amorevolmente le rose in giardino; Franco che si dimena nel suo Pet shop; Marzia che elargisce sorrisi a tutti i clienti della pasticceria. Io invece, sette anni fa, ho deciso che quella vita non faceva più per me. Una laurea in tasca, tanti sogni nel cassetto, una lunga storia alle spalle. Le stesse che ho deciso di girare alla mia Terra. Il cielo si sta ricoprendo nuovamente di un pesante manto grigio. Butto giù l’ultimo boccone del mio tramezzino (oggi non mi è sembrato poi così amaro), e via, si ricomincia. O forse no! H14.00 Ctrl-Alt-Delete >>> Unlock Computer Password: Sardinia.
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Mamma sprint
Cristina Rizzotti
Ore 13.00: con il click della macchinetta che segna impietosamente le ore di arrivo e partenza dall’ufficio, scatta la mia pausa pranzo. Saluto il collega che mi sfida con lo sguardo, quasi volesse scommettere che anche questa volta avrò un piccolo ritardo da segnare al mio ritorno, recupero il mio Elefantino a quattro ruote e mi catapulto nel traffico cittadino che conta più Porsche e Mercedes che persone per strada. Mi ritornano in mente immagini di mamme guerriere, invocate da non so quale pubblicità automobilistica: grintose e manageriali, pronte a ogni sfida pur di soddisfare ogni minimo dettaglio organizzativo della propria famiglia. Io faccio finta di essere una di loro, anche se molto meno grintosa, e ogni giorno più stanca. Per strada divento una mamma volante. Il dialogo con il semaforo nemmeno più lo cerco, accelero e via con il giallo-rosso. Ci siamo: le ruote sgommano e si bloccano giusto davanti al Kindergarten. Subito mi sintonizzo sul tedesco ed entro a cercare il mio ribelle che si sarà rifugiato in una delle tante stanze che fanno onore al «metodo aperto» della scuola materna tutta libertà, giochi e fantasia all’insegna dell’interculturalità. Ore 13.20: bambino in macchina, cinture di sicurezza allacciate e via in direzioni dei nonni nella Nordbahnhofstrasse tra una canzone in inglese, piccoli dialoghi in italiano e tedesco e la voce eccitata del giornalista dell’emittente locale. Arriviamo giusto in tempo per sentire le ultime notizie del Tg1. Saluti e abbracci e di nuovo on the road. Restano ancora dieci minuti fino alla destinazione finale, ossia di partenza. Minuti preziosi in cui poter ragiornare sul senso della vita, impegni di lavoro, o semplicemente sulla composizione della lista della spesa da fare in fretta e furia dopo il lavoro. Click, alle 14.05 riappaio in ufficio dove il mio collega mi accoglie con un sorrisino ironico. Mi siedo alla scrivania. Il telefono squilla. Rispondo: qui Istituto italiano di Cultura.
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Si mangia al bar del Corso
Stefano Pierini
L’ora del pranzo? Ma diciamo che è l’ora in cui il lavoro dà meno ansia; al Nord saranno già al primo piatto, al Centro si inizia e al Sud si comincia a pensare che fra un po’ si mangerà. Io come mi comporto dopo questa presentazione geografica? Cerco qualcuno/a fra i colleghi, per conversare; più che mangiare è assaporare la propria e altrui identità. Nel lavoro spesso si è camaleonti, per necessità, per strategia, ma ora se sei di fronte a una persona amica puoi essere te stesso. Il pasto è solo «il contorno» di questa esigenza di comunicazione... libera. Si parla male di qualcuno? Serve anche questo! Si guarda con sorriso ammiccante il seno abbondante della giovane che è appena entrata, serve anche quello! Dicevi? Non parlarmi di lavoro ti prego, almeno qui. Invece il lavoro si accomoda, non invitato, al tavolo. Siamo preoccupati... la borsa, i bot, la mancanza di liquidità! Stefano scusa mi prendi l’acqua... sì certo è la liquidità che conosciamo meglio, quella che beviamo, non quella che ascoltiamo dai media. Il mio bar, piccoli tavoli avvicinati e tu mangi, uno beve, uno compra un pacchetto di sigarette, uno legge il giornale, un altro guarda la tele; la signora Ada che esce dal cucinino e ti offre maccheroni aglio, olio e peperoncino. A volte mi sembra un teatro con i personaggi in cerca di... tanti sogni, sono ormai entrato a far parte degli attori stabili, l’anno scorso ero comparsa... ora se non mi vedono i padroni del locale si preoccupano. Tranquilli, sono qui ad accettare senza brontolare (occhio non vede cuore non duole), scherzavo sor Franco, mai avuto un disturbo. Che ore sono? Le 13.30... Severgnini farà un concorso anche per le mezze ore? In medio stat virtus. Il caffè... rito, me ne fai cinque? Chi non lo prende? Patrizia... ma dai che dormi lo stesso! Be’, giovani è ora di andare... sempre di fretta... ma l’orario è dalle 14... l’orario. Non si trova neanche più quello dei treni con i suoi strani numeri e asterischi. Ora si va su www... w la dieta mediterranea!
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Non qui, non ora. Non c’è tempo, non questo
Rossano Pecoraro
L’infinità dell’universo. Tra magia e scienza un flusso unisce le cose del mondo. Non esiste un altrove. Non qui, non ora. Non c’è tempo, non questo. Ma che ci fa, lei, in pieno Rinascimento? Sono trascorsi poco più di sessanta minuti dall’ora sesta. È l’una e qualche secondo. Impossibile essere più precisi. E perché esserlo, in fondo? Poco fa (ma quanto «fa»?) ero a Buenos Aires, di fronte al mistero di Nuestra Señora del Pilar. Il suono del mio spagnolo di vecchia data la faceva ridere, a volte con sussulti di paranoia. No, credetemi. È vero, non ne so il motivo. Ma venite, comunque. Dobbiamo lasciarci. Per ora, forse. Come? Sì, perché? Già, sono le 13.14. Nessuno sapeva del quadro. Nella libreria di notte, sullo scaffale una riproduzione del Caffè di notte di Van Gogh. Avete fatto caso all’orologio? Lì, al centro, un po’ sulla destra. Segna un minuto all’una e un quarto. Attenti: è evidente che siamo di fronte a un impostore. Sì, io. Non maledicetemi; non qui, non ora. Lo so: scrivo sull’ora 13 e non sull’ora 1. Ma non è nulla. Subito ritornerò al giusto. Perdonatemi, credetemi. Un attimo fa, dunque, ero lì. Ora, ecco, il viaggio. Copacabana, Rio de Janeiro. Mulatte, gringos, false bionde; la classe media che corre, biciclette, scippatori; la spiaggia, poliziotti annoiati. Non c’è allegria. Sento solo la nebbia estiva di una malinconia infinita, come l’universo attraversato da quel flusso che unisce. Un quarto alle due. In Italia sono quasi le cinque; forse le sei o le sette. Devo concentrarmi, non perdere la calamita del senso, afferrare le (in)differenze del fuso orario. Tempo inesorabile e doppio; implacabile nella sua cadenza oggettiva; crudele nella sua soggettività, scritta nell’anima di chi lo invoca o lo patisce. È tempo di chiudere, ormai. L’ora è scivolata via. Sarà uscita? E i ferri? Cosa le avranno detto? «Il sipario compie la sua corsa. Nella buca uno spettro e schiene di pupille.» No, per favore. Non qui, non ora. Non c’è tempo, non questo.
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Cacerolazo (dalle 13 alle 14)
Monica Bisio
A volte ci troviamo con mio marito in centro per pranzare insieme... Un’oretta per lasciare da parte i nostri mestieri è quello che ci vuole. Soprattutto quando si abita a Buenos Aires, città caotica, inquieta, difficile, vivace per eccellenza. Lì... vicino a Plaza de Mayo, a più o meno duecento metri su corso di Mayo c’è il caffè Tortoni: luogo emblematico della vita porteña e degli scrittori e dei pittori ormai famosi nel 1940. Era l’ora del pranzo ed eravamo lì nel Tortoni mangiando una pizza e bevendo una birra alla spina. Il locale era pieno zeppo come tutti a quell’ora in centro. All’improvviso cominciammo ad ascoltare un forte rumore in crescendo, che veniva da fuori. C’erano persone che gridavano, altre si arrabbiavano, e i turisti che stavano insieme a noi sono usciti in strada a fare fotografie e incidere con la video quello che succedeva. E quello era soltanto una delle manifestazioni di un gruppo sindacale che di solito chiude al traffico veicolare corso di Mayo protestando, gridando, cantando e facendo rumore con le pentole ossia facendo un cacerolazo (cacerola : pentola). La scena nel caffè era una vera pazzia; i turisti correvano fuori, i camerieri correvano tra i turisti per chiedergli il denaro del conto e noi, i cittadini di Buenos Aires, aspettavamo che tutto ritornasse alla normalità, nel frattempo continuavamo con il cibo e le bevande.
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Il sole che trema sul tuo viso
Daniele Zepparelli
Mi volto e scorgo gli occhi di chi non posso dimenticare e li vorrei proteggere dal sole, quegli occhi gettati lì a mendicare. Le parole sono quotidiane: non dureranno con questo vento. Tra le mani scopro delle carte; è un mazzo che non è buono. Ti proteggerò amore mio, saprò fare meglio di Saba e delle sue preghiere. Ho attraversato strade correndo dietro a un pallone, con l’incoscienza del sudore non ancora maturo. Ho preso vipere e le ho viste morire sotto l’olivo spezzato. I gerani sulla finestra hanno bisogno di acqua. Mi sfiora un uomo che porta cartoline. Un napoletano ciancia di donne e partite. La gente del bar è sempre diffidente con chi porta altri confini. Ma basta un odore di camicia che mi ricorda il sudore antico, perduto, quel sudore dietro alla palla, dietro alla mia vita e un’ora diventa margine, persuasione. Eppure sono soltanto chiacchiere da bar: è la pausa del pranzo. Perché mi piaceva giocare alla guerra e fingermi morto? Per cadere e scoprire spazi di terra, croste d’ombra, vene d’erba, gonfiori di luna, ragni che si agitano in aria cullati dal vento e pensare al tuo viso, «al sole che trema sul tuo viso», e che ti bacia. È tempo d’andare, guardare fuori e scoprire una strada di terra dietro case che aspettano di essere vendute. Il cucchiaio è rimasto sul caffè. In fondo si vive di ore perdute. Ce la faremo, vedrai, anche se scherzando ti dico che in Italia il futuro è dei vecchi! Perché in fondo anche noi siamo due vecchi amanti...
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Primi secondi
Michele Antenucci
16.9.81/13.00. Apro gli okki ma nn riesco a vedere, provo a muovermi ma lo spazio è poco. Ricordo una corsa sfrenata tramite millesimi di secondo ke dicono tanto. Sono sdraiato di skiena, quindi alzo la testa x capire e vedo una luce in fondo. È fortissima! La riabbasso e cerco di calmare il respiro. Sono affannato e ho male agli okki. Trovo la forza x scoprire lentamente la visuale oltre il petto, giungere alle gambe. Guardo le mie mani esili e i piedi muoversi, sono pieno di sangue. Sento delle voci provenire da fuori, così tiro le ginokkia verso il mento xkè ho paura ke qualcuno possa prendermi. Vorrei gridare qualcosa, ma forse è meglio nn farsi sentire vivo. È una sensazione paradossale, lo odio ma nn voglio uscire. Devo farmi coraggio e provarci, ma sto tremando! Eh... ca... nooo, qualcosa mi spinge verso la luce. C’è forse qualcun altro qui dentro? Nn parlo, altrimenti! Idiota. Qualcuno ti sbatte fuori, reagisci. Adesso c’è una nuova terribile realtà, sento forti urla provenire da fuori. Un grido misto a un pianto disxato, come se qualcuno volesse con tutta la forza ke ha nel corpo liberarsi da catene opprimenti. Poi una voce + dolce sembra consolare la xsona ke soffre. Sono confuso e nn so se tutto quello ke sto vivendo, le urla, la spinta, le voci, la luce, siano segni di gioia o di terrore, o solo un’immaginazione frutto delle mie paure. Lentamente apro gli okki e sembra che la luce mi acceca di meno, ma è tutto appannato. E le voci? Prestando troppa attenzione alla luce nn ho notato ke le voci sono svanite. No! D’un tratto sento delle mani ke mi afferrano i piedi. Ora la spinta è forte e decisa, ma nn violenta. Esco ancora, mi sento mancare e ora soffro anke una forte presa al collo. Sto x soffocare, ma poi le mani ke mi tengono adesso il petto, mi stringono e mi tirano fuori. Finalmente! Vedo ma nn capisco. Tante xsone sorridono; una sola è esanime. La tensione accumulata sta incredibilmente svanendo. Cado in un disxato pianto mentre le xsone accanto gridano di gioia: è nato!
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Mensa giapponese
Stefano Freguia
È già l’una e mezza e ho perso la concentrazione da un po’, sto pensando solo al pranzo. A questo punto l’esperimento che stavo eseguendo con tanta cura fino a poco fa non mi interessa più. Qui a Kyoto i colleghi ricercatori universitari (tutti giapponesi) iniziano a lavorare alle dieci, quindi non pranzano prima dell’una e mezza. In un laboratorio giapponese si pranza tutti assieme, per cui aspetto in preda ai crampi. Finalmente il grido tanto atteso: «Gohan!». Si va a pranzo. Alla mensa si ordina da una delle gentili signore che lavorano in cucina. Guardo il menù. Anche oggi mi rendo conto di non saper leggere il giapponese. Mi giro in cerca d’aiuto, mentre la gente in fila incalza. Fortunatamente c’è quasi sempre un collega che accorre in mio soccorso e mi fornisce una breve spiegazione dei piatti del giorno. Se non trovo nessuno, sono costretto a ordinare «il solito», vale a dire udon con tofu fritto o curry rice. Un inchino e mi dirigo verso il tavolo. Finalmente tutti a tavola. Anzi no, ne manca sempre uno che ha voluto ordinare il piatto più complicato. E si aspettano altri cinque minuti mentre lo stomaco soffre e il cibo si raffredda. Arriva il ritardatario, che si scusa, e al grido «Itadakimasu» (buon appetito) si inizia la degustazione. Mentre cerco di non ascoltare il rumore assordante del risucchio di noodles dei giapponesi (è il modo appropriato di mangiare) il capo mi coinvolge in un’inverosimile conversazione di lavoro. Cerco di dargli retta finché il mio sguardo viene catturato (anche oggi) da un’altra deliziosa studentessa giapponese, che si aggira per la mensa incuriosita dai piatti del giorno. Stivale in pelle fino quasi alle ginocchia, gonnellina quasi inesistente, gambe vellutate, viso impeccabilmente truccato e sguardo innocente. Provo a resistere. Non ce la faccio. Prima la seguo solo con gli occhi, poi mi giro. Ovviamente non sto più ascoltando il capo, e il giapponese seduto di fronte a me mi rivolge uno sguardo eloquente: sei proprio italiano!

Ore 14