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Italians_Una_giornata_nel_mondo

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Attesa

Daniela Sabbioni

La mia vita è molto banale e molto intensa. Casa, lavoro, casa, qualche hobby. Ma in questa vita banale è successo qualcosa. Sono le 11 del 28 luglio. Fa caldo, i rumori in questo posto sono ovattati, tutti parlano a bassa voce, medici e infermieri si incrociano nei corridoi e io ho paura che qualcuno possa sentire i battiti del mio cuore che picchia all’impazzata. Sto aspettando con Marco, nella piccola stanza del reparto di patologia neonatale, il nostro bambino. Lo vedremo oggi per la prima volta, questo bambino amato fin dal primo momento in cui è stato concepito. Non sapevamo né dove né chi, ma sapevamo già di amarlo e che un giorno o l’altro ci sarebbe stato lui per noi; e lo desideravamo anche se non era ancora. Io lo sentivo crescere prepotentemente nella mia testa, anche se non era ancora... ma ecco... sento dei passi... la porta si apre, qualcuno si dirige verso di me, mi devo sedere per l’emozione, mi dicono che questo è il nostro bambino... e allora il mio cuore si spacca in un milione di frammenti di gioia, dolore, emozione, stupore; vorrei gridare parole d’amore, sussurrare momenti di tenerezza, piangere le lacrime di tutta una vita, allentare la tensione che mi ha sorretta fin qui... ma riesco solo a guardare, muta, questo bambino che, adesso, è finalmente, miracolosamente nostro... È il 28 luglio ed è mezzogiorno. La mia vita non sarà più la stessa.

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Ore 11.50: a Copenhagen è ora di pranzo

Sabrina Bacci

Sono le 11.43 di una normale mattina di ottobre. Una mattina... E invece no, per loro non è più mattina, lo testimonia il fatto che sono stata più volte presa in giro, quando esclamo degli improbabili «god morgen» alle 11. No, è già ora di pranzo. Eh sì, perché qui, i miei colleghi danesi, si svegliano presto, a mezzogiorno hanno già concluso metà del loro lavoro e io invece ho appena cominciato a carburare. Spero solo che oggi nessuno mi venga a chiamare per il pranzo. E invece, ore 11.50, arriva lei, la collega alta e bionda. Ha fame. Che facciamo andiamo? La mensa chiude alle 13.30, bisogna sbrigarsi, altrimenti finisce tutto. E io che faccio? Mangio da sola? Alle 14, quando la gente è già pronta per andare via? Ridicola. No, anche io devo andare. Vado. Ma io ho il mio pranzo. Ci sediamo con gli altri. Tutti guardano il mio piatto ma, ovvio, nessuno ha il coraggio di chiedere. Una banale caprese. E le domande sarebbero infinite: perché uso il pane per accompagnare le cose, e non ci spalmo il burro, perché il pane è bianco, perché bevo acqua e non caffè durante il pasto, perché condisco i pomodorini con l’olio, e soprattutto perché li taglio a metà. Ma nessuno chiede niente. Loro mangiano lo smørrebrød. Pane nero versione orizzontale, con sopra mille varianti di condimento, ma soprattutto, mangiato con forchetta e coltello. E io, sud-europea, mangio il mio pezzo di pane con le mani. Dal momento in cui lei, la bionda, mi ha chiamato per il pranzo, è passato qualche minuto, è poco dopo le 12, e ufficialmente per fortuna (almeno per me) mattina non lo è più. Posso mangiare. Finito, torniamo su. Io cerco un caffè, sono l’unica. Gli altri sì, lo bevono, ma non subito dopo il pranzo. C’è il bibitone. Ok. Cerco qualcuno per parlare. No, è ora di rimettersi al lavoro. Sono passati più di 40 minuti. Sì, sono le 12.40. E pensare che il mio ristorantino preferito di Roma solo tra un po’ comincerà a riempirsi. Ma Roma è... laggiù.

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Lotta di classe al centro commerciale

Demetrio Canale Marzotti

Le porte dell’ascensore si stavano chiudendo. Pregustavo il silenzio della cabina. Non ne potevo più di musica commerciale mescolata agli annunci di polli fritti che rosolavano al reparto rosticceria e torte appena sfornate al reparto panetteria. Non frequentando mai i centri commerciali mi sentivo stordito. All’improvviso il ventre gonfio di un uomo, insaccato in una maglia aderente, si frappose alle cellule fotoelettriche urlando: «Agata, Michel, Kevin qui». Mi pentii di aver invitato amici a cena quella sera. Di domenica la bottega macrobiotica è chiusa, i supermercati straripano gente. Il gruppo invase la cabina. Mi ritrovai stretto tra un carrello stracolmo di cibi precotti e due ragazzini in carne. I nomi avevano trasmesso loro il garbo degli eroi delle telenovele di cui erano epigoni. Litigavano senza sosta ma ciò non induceva i genitori a sedarne gli animi. La mamma esibiva un jeans a vita bassa che segnava sapientemente le forme. L’ombelico troneggiava su un addome i cui rotoli di grasso erano trattenuti a stento dal pantalone. L’indumento aveva stampato sul retro due grandi ali bianche che poste sul sedere della donna davano l’idea di una tacchina pronta per essere macellata. Molti chili di carne giacevano sul secondo carrello sopra altre bombe chimiche pronte a esplodere loro nello stomaco. Si aggiunse nausea allo stordimento. Per distrarmi mi guardai allo specchio. La giacca attillata esaltava la mia linea. La camicia mostrava un ventre piatto. Ricordai dove avevo visto la donna. In fila alla cassa mi aveva guardato disgustata mentre ponevo sul nastro zenzero, frutta bio e biscotti senza grassi. Li avevo estratti dal sacchetto di tela bianca con su scritto «basta con la plastica». Un ricordo di Panarea. Nel girarmi il sacchetto si impigliò in un carrello. Lo tirai nervosamente verso di me. La tela si lacerò mentre le porte dell’a- scensore si aprivano e la famigliola schizzava fuori alla guida dei due carrelli le cui ruote schiacciavano la mia cena.

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Lo stacco

Giulia Drigo

Da oggi vado in stacco, ovvero l’azienda mi appioppa venti giorni di ferie forzate, per non forzarsi ad assumermi a tempo indeterminato. Sono figlia dell’epoca liquida: la mia vita scorre febbrile al- l’interno di argini artificiali. Nell’attesa della «Grande Inondazione» defluisco mestamente, prosciugandomi ogni giorno di più. Mi sveglio orfana di un impiego e di una relazione: la mia storia è scaduta, come lo yogurt in frigo e il contratto in agenzia. Curioso come il termine «determinato» produca una così sconfinata indeterminatezza. Mi sono alzata tardi. Attraverso il fumo della prima sigaretta intravedo l’angoscia che, tra tabacco e caffeina, almeno per un quarto d’ora riesco a tenere a bada. Mi trucco come quando avevo sedici anni. Mi sento come quando facevo manca ai tempi della scuola. Ho un’ora da consumare prima di pranzo, entro in libreria. Copertine colorate, dalla grafica impeccabile, mi attirano come magneti. Gomorra occhieggia accigliato le nuvolette svolazzanti e profumate di agiatezza dei mocciosi di Tre metri sopra il cielo. Il mio è un Paese strano: infettato da germi terribili si specchia imperterrito nel sorriso cavallino di certi anchormen telegenici e dei suoi presidenti. Va incontro al tramonto, raccontandosi che tanto, dopo il buio, viene sempre l’alba. Ecco, non mi sento più a mio agio tra tutte queste nuvolette di carta colorate, luccicose, morbidine e carezzevoli. La mia realtà è fumosa, annebbiata e ruvida. Vorrei dei libri che la rispecchiassero meglio: vorrei un Bulgakov sgualcito, un Dostoevskij consunto, un Murakami essenziale. Vorrei che Moccia e Saviano non stessero sullo stesso scaffale. Che al telegiornale dopo un servizio sul free lance torturato e ucciso in Georgia non ci fosse il reportage sulla sagra del fagiolo. Mi ritrovo alla cassa con Il deserto dei tartari tra le mani. È un regalo per la mia giovane vicina di casa, che compie sedici anni: chissà se oggi, per la sua festa, ha deciso di regalarsi un giorno di stacco?

Ore 12

Tic-tac

Elena Pegurri

Tic-tac, tic-tac. Il malfunzionante orologio appeso alla parete arancione dell’aula continuava a segnare il tempo fin troppo lentamente, come ad avvertire che l’ultima ora di lezione doveva passare molto più lentamente delle altre, come ogni santissimo giorno! Lo faceva apposta, quell’orologio, a darmi sui nervi. Anche i bidelli si affidavano a quello per suonare la campanella e, ovviamente, sbagliavano. Inoltre i professori ci trattenevano in classe per almeno dieci minuti più del necessario. Fanno l’impensabile pur di tenerci incollati a queste sedie! Tic-tac, tic-tac. Tre minuti? Possibile che siano passati solo tre minuti da quando ho controllato l’orologio? Meglio non pensarci, proverò a capire cosa sta dicendo la prof. Ma che lezione è poi questa? Ah già, tecnica... Materia più noiosa, no? Vabbe’, stiamo ad ascoltare. «... pensate sarebbe comodo avere dei poteri come i Fantastici 4? Se per esempio hai fame ti basta allungare a dismisura il braccio e raggiungere il...» I Fantastici 4? Che cosa c’entrano adesso i Fantastici 4 con tecnologia? Tutto sommato questa materia non è così noiosa se si ha una prof come lei! Anziché parlare del legno o simili parla di supereroi! Ma che cosa ha nei capelli? Una mosca? Non se ne è neppure accorta! E adesso che fa? No! Sull’orologio no! Troppo tardi, l’insetto si è posato su quell’infernale aggeggio, così adesso lo sto guardando ancora. Venti minuti? Evviva! Allora distrarsi funziona! Manca solo mezz’ora prima della fine della lezione e poi... tutti fuori! Però non è giusto che io stia in prima fila! Cos’ho fatto di male? E poi vicina a... ma che fa? Dorme? Beato lui... Però non ha tutti i torti. Il ronzio della voce potrebbe essere quasi rilassante, se non stesse parlando di... cavernicoli? Da quando i Fantastici 4 hanno lasciato spazio ai cavernicoli? Boh... Però che lezione! Ora che ci penso sfiora quasi il divertimento! Tic-tac. Dieci minuti. Dieci minuti? Manca così poco alla libertà?! Sììì! E tra poco... Driiin!

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Un’ora di lusso sfrenato

Elisa Ajelli

Corro fino alla porta d’ingresso, infilo la chiave nella toppa, spalanco, butto la borsa sul divano e lascio le scarpe in anticamera: ci sono. Tendo le orecchie: silenzio avvolgente. Sorrido a me stessa in quest’ora di ritorno imprevisto e misuro con gli occhi il perimetro di casa, poi entro nelle stanze con passi felpati. Schiaccio il naso contro la porta finestra e abbraccio con lo sguardo ciò che vedo oltre il balcone. Tutto fermo. Mi giro e scorro i libri nella libreria, indecisa su quale sfogliare, forse quello con la copertina blu nella pila dei nuovi. Dopo, c’è tempo. In punta di piedi vado in camera, spalanco la finestra e mi faccio accarezzare dall’aria nuova. Squilla il telefono e un brivido di fastidio percorre la mia schiena. Rispondo; no, richiamo. Perché continua? Proprio ora. Non voglio sapere chi è. Chiudo gli occhi e attendo di riprendermi il silenzio. È mio, ancora. Immagino il prossimo viaggio, scorro con il pensiero i paesaggi in cui vorrei essere, con chi; ipotizzo giorni liberi e sposto fintamente gli impegni a data da destinarsi. Mi tolgo i vestiti, lentamente per non fare rumore. Apro l’anta dell’armadio che scorre nelle guide con un sibilo ovattato e sfioro gli abiti appesi prima di scegliere. Con la mente li indosso tutti, uno alla volta, in un girotondo di vestiti in cui io sono al centro; scelgo e li ripongo in ordine differente, prima i più colorati. Mi rivesto, chiudo la finestra, sono pronta. Ancora accarezzo i libri nuovi, li apro a caso e leggo qualche riga dell’uno, poi dell’altro, provo a immaginarmi il seguito o la fine. Ma sono al limite, devo andare. Prima che finisca l’ora lo indosso dentro e fuori. Il gioiello più prezioso, quello che non è in vendita, quello introvabile perché raro e tutti lo vogliono: una cascata di silenzio. Ecco: mi avvicino alla porta d’ingresso e suona la sirena. Le cinque scavatrici riprendono a funzionare sotto casa mia e io esco dalla mia ora, dal mio tempo a tempo di lusso a scadenza.

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Lunchtime

Paola Di Meglio

Lancio un’occhiata all’orologio sul monitor, ore 12.00: sì, si può fare, basta grafici e statistica, è ora di pranzo. Mi alzo e inizio il giro, anche se l’ho già fatto ieri e pure il giorno prima, ma non c’è problema, si è sempre detto che non c’è un turno, lo fa chi può, chi ne ha voglia e soprattutto chi ha fame per primo. L’austriaca è andata come al solito per i fatti suoi, Chris sarà al banco e Felicia mi dice che ha la sua zuppa al pomodoro. Una zuppa per Cheri, Blt (bacon, lettuce, tomato) per Maria, un sorriso dal giapponese che ha come sempre il suo pranzo miniaturizzato avvolto nel fazzoletto di seta della moglie. Rifaccio il giro, mi mancano sempre due persone. Eccoli, raccolgo le ultime due ordinazioni ed esco. Sorrido, mi è andata bene, solo 13 minuti e tre giri del piano. E anche il tempo oggi non è male, cielo azzurro, addirittura un pallido sole, forse vale la pena di salire al ventiquattresimo piano e mangiare guardando Londra dall’alto. Chiamo Anto, dico: ci vediamo su, dillo agli altri. Arrivano tutti in gruppo, anche Felicia con la sua zuppa rossa, ci sediamo al nostro tavolo, quello con la vista migliore e scartiamo i cartocci. La conversazione si anima, si nomina qualche assente di cui nessuno probabilmente sente davvero la mancanza. L’ennesimo aereo, ma quanti ne passano in un’ora? Scendiamo, c’è chi va di fretta, il timer ha suonato. Incrociamo in ascensore gente di altri laboratori, magari si stanno chiedendo per l’ennesima volta perché ci teniamo così tanto a mangiare insieme. Guardo l’orologio, giusto il tempo di mettere su il caffè, quanti siamo? Un altro sorriso dal giapponese, stavolta per dire sì, grazie. Maria scappa a prendere l’acqua; Cheri è tornata indietro, ho cinque minuti adesso, c’è il caffè anche per me? Anto sorride, si divide, dice: non c’è problema. La cucina è sovraffollata, il microonde è a pieno regime, beviamo in fretta e lasciamo campo libero. Sono di nuovo alla scrivania, sbircio in basso, ore 12.59. Riapro il file e sospiro. Chris pure, risata.

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Autunno perpetuo

Paolo Ravagnani

Credo che certi posti esistano solo in autunno. Un grumo di case adagiate nella pianura tra Adda e Po, a poco più di un’ora di macchina da Milano; ma la distanza non andrebbe misurata in minuti o chilometri. I miei nonni materni sono sepolti qui, e ora che anche mia mamma non c’è più, è passato a me il compito di accompagnare mio padre a custodirne il ricordo. Arriviamo di lunedì, verso mezzogiorno: una giornata né bella né brutta; suoni e colori attutiti e dignitosi, come tutto da queste parti. Nel suo genere, il cimitero non è triste: per qualche ragione che non so spiegare c’è raccoglimento ma non malinconia. Le fotografie dei nonni mi scrutano perplesse: perché tu e non lei? Eppure, dovrebbero sapere. Poi, due file di case basse lungo una stradetta serpiginosa per arrivare a casa delle zie. Più propriamente, «le zie» sono le tre cugine e il cugino della mamma. Mi sembra improponibile parlare di singles: diciamo che due di loro l’anima gemella non l’hanno mai incontrata; e le altre due l’hanno persa. Se siano o meno felici, non saprei dirlo; ma la trepidazione con cui ci accolgono sembra tradire il desiderio di interrompere quest’autunno perpetuo. Saliamo al piano nobile. Sulla tavola accuratamente apparecchiata arrivano nell’ordine: il salame, il vino rosso, le tagliatelle col ragù, gli arrosti (vitello e maiale), la torta di mele cotogne e il caffè (e la frutta? un digestivo?). Un gattone grigio mi si strofina contro le gambe. Mi chiedono delle bambine (perché non ci hai portato le fotografie?); ci raccontano del paese che è ricco e si sta bene, e anche i tanti rumeni che sono venuti a lavorare qui, tutte brave persone; ricordano di come nel ’79 sono morte oltre venti persone per brutti mali, e io penso che forse nessuna Erin Brockovich è andata mai a verificare cosa ci fosse nell’acqua che irrigava i campi. La pendola segna quasi l’una. Laggiù, oltre la via Emilia e l’autostrada, cattiva e impaziente ci attende la tangenziale di Milano.

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