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[Jean_Paul_Sartre]_Visita_a_Cuba(BookZZ.org)

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ricostruire, con tutta la sua forza, come con trapianti ossei, un nuovo scheletro; il rimedio è estremo, spesso bisogna imporlo con la violenza.

Lo sterminio dell'avversario e di qualche alleato non è inevitabile, ma è prudente prepararcisi. Dopo questo, niente garantisce che il nuovo ordine non sarà schiacciato dal nemico dal- l' interno o dall'esterno, né che il movimento, se vincitore, non sarà deviato dalle sue lotte e dalla vittoria stessa.

26luglio 1952: un giovane avvocato all'assalto della caser-

ma

Possiamo capire che una metamorfosi così rischiosa sia temuta dagli stessi oppressi, fino a quando la loro condizione rimane appena tollerabile. Le masse si decidono solo in ultima analisi e dopo che si è tentato tutto: allineamento degli interessi, agevolazioni sanitarie, riforme. Si può dire che si decidono? Di solito ci sono costrette da cataclismi enormi. La bancarotta e la miseria, la guerra straniera e la sconfitta decideranno per loro, a volte forzeranno il partito rivoluzionario stesso a prendere il potere in un momento inopportuno. Quello che mi sorprende qui, è che le agitazioni siano cominciate così bruscamente. Niente le annunciava, non la minima catastrofe visibile. Quattro anni prima, un colpo di stato aveva dato il potere a Batista; poche persone avevano protestato: si rassegnavano alla dittatura per la noia delle loro assemblee marce e inconcludenti.

Un giorno, però, il 26 luglio 1952, un giovane avvocato, Fidel Castro, si era lanciato con un gruppo di compagni, all' assalto della caserma Moncada. Ma lo avevano preso, messo agli arresti, condannato. L'opinione pubblica non lo sostenne: «Chi è questo spaccone? Ecco uno che ha studiato! E che non conclude niente. Se Batista si fosse irritato ci avrebbe sparato addosso!».

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Castro amnistiato ma esiliato

I partiti d'opposizione non si erano risparmiati di biasimare questo temerario che aveva fallito. Il Pc cubano parlava di avventurismo. Il «Partito autentico» si arrendeva; il «Partito ortodosso» era il più severo: Castro infatti ne faceva parte quando tentò il colpo. «Serve - dicevano tutti questi uomini maturi e riflessivi - una sinistra. È la speranza del paese. Dal suo punto di vista, per demagogia, per convincere il continente che le opinioni sono libere a Cuba, il presidente la tollera a condizione che non alzi neanche un dito. Eh sì! Non facciamo niente, solo presenza: il tempo lavorerà per noi. Ma non bisogna che un ragazzino, un irresponsabile, rischi di rompere questo equilibrio per una divagazione». Il silenzio ricadde sull'isola. Due anni più tardi, un cattivo consigliere suggerì al dittatore che si sarebbe potuto accattivare il popolo con delle misure di clemenza: Castro, amnistiato ma esiliato, prese la via per il Messico; questa falsa magnanimità non ingannò nessuno e, in quel momento, servì solo a lui.

Il capo della polizia guadagnava ogni giorno diecimila dollari nelle sale da gioco

Dopo questo, niente. Rivolte sorde in alcune regioni contadine, ma il rumore si perdeva tra i campi, non arrivava alle città. Su Cuba regnava l'ordine. Il dittatore, all'apice del suo potere, forte di cinquantamila soldati, di un corpo di polizia disposto a tutto, vendeva zucchero e piacere agli americani, e comprava armi dagli inglesi. Nessuna bancarotta in vista: l'isola, ovviamente, non aveva una bella cera, ma la situazione era cronica; quanto a Batista, le sue casse traboccavano di dollari. Il capo della polizia adorava il regime, si sarebbe sacrificato fino alla morte. Ogni mattina guadagnava diecimila dollari nelle sale da

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gioco dell'Avana. I giorni passavano e, almeno in apparenza, si somigliavano tutti.

Gli speculatori speculavano, i trafficanti trafficavano, i disoccupati non si occupavano, i turisti si inebriavano, i contadini, denutriti, divorati dalla febbre e dai parassiti, lavoravano sulla terra degli altri un giorno su tre.

Su due cubani uno solo sapeva leggere

Su due cubani, uno solo sapeva leggere e comunque non leggeva più: i giornali, strettamente controllati, diventavano illeggibili; la censura veniva esercitata anche sui libri, devastava librerie e università. I partiti d'opposizione parlavano sempre: si credevano i custodi delle libertà democratiche; tutti, anche il Pc reclamava una consultazione elettorale. Ma le loro voci si facevano più deboli anno dopo anno e il paese non le sentiva più. Certo Batista era odiato, ma nessuno sapeva chi mettere al suo posto. E se aveste parlato alla gente di suffragio universale, vi avrebbero riso in faccia. Insomma, un paese che sembrava rassegnato, un malessere irremovibile a temperatura costante. E poi un giorno venne chi non si annunciava né migliore né peggiore degli altri. Ali' Avana, dali'alba, come ogni mattina, la polizia faceva la sua deviazione nelle bische prendendo la tangente dai padroni; la squadra della buoncostume nello stesso momento ricattava le ragazze. I giornali parlavano di Wall Street e della vita mondana: chi era andato da chi il giorno prima? Pubblicavano la lista degli ospiti più importanti di Cuba. Il cielo era nuvoloso; brezza forte, temperatura massima: 28° a ovest; a est 30° e un po' di più; era il 2 dicembre del 1956. Quel giorno, senza avvisare, cominciò la Rivoluzione.

Una manciata di uomini raggiunge le pendici della sierra Maestra

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Erano in ottanta, che venivano dal Messico, ammassati su una vecchia bagnarola. Il mare era agitato, ci avevano messo quasi una settimana ad attraversare il Golfo; quando misero piede sulla costa, il 2 dicembre, non lontano da Santiago, avevano pensato di arrendersi; molti si trascinavano a fatica, sfiniti dal vomito. I soldati e la polizia li aspettavano: qualche giovane doveva fomentare un'insurrezione nella città per favorire lo sbarco; ma la tempesta aveva fatto ritardare l'imbarcazione, la sommossa era scoppiata il giorno stabilito e i giovani insorti, soli e senza soccorsi, erano stati massacrati. Ormai, le forze deli' ordine erano in allerta: segnalata, braccata, la piccola truppa si divise in vari commando. Un solo obiettivo: la montagna. Ci si sarebbe ritrovati. Molti sarebbero mancati all'appuntamento: alcuni sarebbero stati accerchiati, uccisi o fatti prigionieri, altri si sarebbero persi; un gruppo arrivò fino alla capitale per creare una rete clandestina

Una manciata di uomini raggiunse le pendici della Sierra Maestra, la più alta catena dell'isola; si nascosero nei cumuli di nubi che avvolgono permanentemente le cime.

Una trentina di fuorilegge stavano per morire di fame

Il primo gennaio 1957, la situazione sembrava chiara: l'e- sercito e la polizia controllavano le città e la pianura; su una cima rocciosa una trentina di «fuorilegge» sarebbero morti di fame: avrebbero finito per arrendersi, se un contadino, allettato dalla promessa di una ricompensa, non li avesse fatti cadere in un'imboscata. Molte persone nelle città alzavano furiosamente le spalle: «È ancora Castro, che ne fa una delle sue. Stavolta andrà male: ha creduto di fare un colpo di mano e invece ha fatto un colpo di testa».

L'altro giorno, ali' Avana, ho incontrato un amico di Castro, un compagno dei primi tempi. Mi ha detto sorridendo:

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«All'inizio, lo riconosco, aveva l'aspetto di un colpo di stato». Ma non ero assolutamente d'accordo con lui: i «colpi di stato», si vincono o si perdono nelle città; un gruppetto di cospiratori si impossessano all'improvviso dei ministeri, degli organi centrali dei gangli nervosi della capitale. Dovranno la loro vittoria, se la ottengono, alla sorpresa. La città si addormenta sotto un regime e si risveglia sotto un altro.

Ma gli uomini del 2 dicembre? Hanno fatto tutto il contrario di quello che gli disse un golpista navigato: si sono annunciati, rifiutando di riequilibrare la disuguaglianza delle forze con il fattore sorpresa hanno, per così dire, preso appuntamento con i soldati di Batista. Anzi, hanno dato loro il proprio indirizzo; hanno fatto sapere a tutta l'isola che erano accampati nella sierra Maestra: dal 2 dicembre, gli aerei militari hanno pattugliato ogni giorno al di sopra delle nuvole.

La regione più alta dell'isola scampava al dittatore Batista

Se hanno manifestato così, dal primo giorno, la loro presenza, non è stato sicuramente per mancanza di abilità: li abbiamo visti, quando lo reputavano necessario, stare di nascosto sulle tracce del nemico, colpire veloci e sparire. Ma, guadagnando la montagna, si erano fissati un obiettivo immediato: la pubblicità. Prima di tutto farsi conoscere; nascondersi ali' esercito di Batista ma non al paese. L'obiettivo era che l'isola intera si riempisse di frastuono: contavano sulle truppe regolari per stordire il paese; ordini e rumore di stivali, spari. Non si sbagliavano: le forze dell'ordine causavano scompiglio dappertutto, vivevano alle spalle dei contadini; si vedevano girare attorno alle montagne e il popolo, a volte rassegnato ali' oppressione quando questa prendeva l'aspetto di un ufficiale da tempo trasferitosi nella regione, non le trovò più sopportabili quando si presentarono a lui sotto un'altra foggia. No, non era una brava-

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ta, una stupida sfida, uno sforzo di qualche giovane per attirare su di sé tutte le forze della reazione. Accettavano di rischiare la morte per informare i loro concittadini che la regione più alta dell'isola scampava a Batista: così, la pianura avrebbe preso coscienza della sua schiavitù, il novantanove per cento dell'i- sola si sarebbe battezzato «terra da liberare».

Tattica: tendere un'imboscata, poi svignarsela

Certo, non eravamo a questo punto nell'inverno del '56-' 57: bisognava ispirare fiducia. E per fare questo, resistere, nient'altro; fare arrabbiare i militari, offrire ai contadini questo spettacolo: delle colonne aggrappate ai fianchi della Sierra, salendo a gran fatica le vette fino a metà strada e riscendendo con le pive nel sacco, per risalire un po' più tardi e avventurarsi nuovamente nelle vallate con la stessa stupida ostinazione delle mosche. I ribelli non erano abbastanza per combattere: questo sarebbe successo più tardi. Innanzi tutto scappare sempre con una mobilità estrema a queste unità, e poi, all'occasione, tendere un'imboscata, sparare, creare il panico nella compagnia, svignarsela. Questo lavoro difficile, monotono e pericoloso, bisognava ricorninciarlo ogni giorno per tutto il tempo necessario: fino a quando la truppa, aumentata per i numerosi partigiani, meglio organizzata, già temibile, non avrebbe dovuto assorbire tutte le speranze della nazione, fino a quando il popolo, testimone di questa lotta impari, non avrebbe spezzato le catene dello scetticismo e della rassegnazione e trasformato una «lotta discutibile» in una rivoluzione.

Un popolo che si batte a mani nude contro uomini armati

Tutto accadde, punto per punto, come era stato previsto. Quindi, avevano avuto ragione. Ma perché? La dittatura pesava

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ai cubani, questo era sicuro. Ma se si è lentamente stancato delle sue istituzioni democratiche, un paese può adattarsi per molto tempo a un regime autoritario: la politica non fa più successo. Da nessuna parte. Bisogna che ci sia un malessere intollerabile per lanciare un popolo all'assalto delle caserme, affinché combatta a mani nude contro uomini armati. Ancora di più c'è bisogno di un rafforzamento continuo di questo malessere.

Quando i contadini si schierarono dalla parte dei ribelli, quando accettarono il rischio di uccidere o di morire, la ribellione aveva, ovviamente, meritato e finalmente ottenuto la loro fiducia, ma la fiducia non basta. Bisognava soprattutto che fossero soddisfatte due condizioni: l'imminenza di un disastro, l'annuncio di una nuova speranza, una nuova arca. Della seconda condizione, parlerò presto; cerchiamo di capire meglio la prima.

L'isola viveva di zucchero: un giorno rischiò di morirne

Ho detto che il cielo era sereno; a est dell'isola, a ovest, niente di nuovo; il marasma. Siccome nessun pericolo evidente minacciava Cuba, bisognava fosse devastata da un cataclisma sotterraneo, bisognava che tutti, o quasi tutti gli strati sociali, sotto la loro apparente inerzia, fossero trascinati in un girotondo folle e mortale; bisognava che la velocità del ciclone occulto accelerasse di giorno in giorno; e per finire, quando il popolo si fosse schierato con Castro, la società cubana avrebbe dovuto essere a un passo dal raggiungimento del suo punto di rottura.

Si trattava proprio di Batista! Avremmo cominciato con il cacciarlo, certo; ma il vero problema era molto grave: questa nazione doveva far esplodere le sue strutture o farle funzionare da cima a fondo. Ecco cosa avevano scoperto i capi ribelli: aspettavano che il popolo si fosse sentito in una situazione di estrema urgenza. L'isola viveva di zucchero; un giorno si

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accorse che ne stava morendo. Questa scoperta, che trasformò la rassegnazione in collera e- come si augurava Castro- l'inerzia in rivoluzione, l'ho fatta anche io a mia volta, avevo lasciato da poco la città per la campagna.

[[France-Soir, 30 giugno 1960]

Un campo di canne da zucchero, a mio avviso, non è proprio cosa allegra. Ad Haiti ne ho visti alcuni che si diceva fossero abitati da spiriti: mi ricordo la terra rossa di un percorso di distruzione e il loro marciume polveroso al sole.

A Cuba, ritrovo con lo stesso rispetto la folla impenetrabile di questi arbusti: si spingono gli uni contro gli altri, si appiccicano, come se fossero attorcigliati sui loro vicini e poi, ogni tanto, si scopre una fessura tra loro, un passaggio nero e profondo. Tutte le sfumature di verde - verde scuro, verde acido, verde pisello, verde acceso, grigioverde - basta che siano aggressive, a perdita d'occhio. Ogni anno si tagliano i gambi che ricrescono per sette anni di seguito. Questa violenza e questa ostinazione nella fecondità mi danno, qui come a Port-au-Prince, la sensazione di assistere alla cerimonia di un mistero vegetale.

Vortici di mosche nella fossa piena di zucchero

La fabbrica era a due passi: ci andai. Le centrali saccarifere, sparse un po' ovunque nell'isola, sono lontane dalle città, in prossimità delle piantagioni. Ci si fabbrica il prodotto quasi finito, lo zucchero grezzo. All'inizio, il lavoro agricolo perdeva i suoi diritti, finiva in un saccheggio: carri da buoi e camion scaricavano il raccolto su un nastro trasportatore: confusione, una caduta disordinata di rami verdastri e sporchi; sciami di mosche

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si gettavano a loro volta nella fossa e il nastro sollevava tutte le messi verso la prima trasformazione, verso la dentiera di ferro che le avrebbe masticate. Si raccoglieva una linfa torbida, si mandavano gli scarti nelle caldaie che venivano costantemente alimentate: in principio la canna forniva il materiale e il combustibile: la fabbrica bastava a se stessa. Ho attraversato una fornace, sudando, contornato da mosche e ho assistito, dagli oblò, alle trasformazioni di quella linfa; ho visto l'evaporazione del liquido, le onde pastose della melassa; in fondo a una cisterna una placca girava su se stessa, utilizzando la forza centrifuga per l'ultimo smistamento. Tutto finì con l'insaccatura dei cristalli umidi e scuri, che non brillavano. I sacchi vennero portati, credo, al porto più vicino, messi sulle navi; ma questo mi bastava: mi dileguai.

Cuba: un'isola di zucchero grezzo

Molto più del calore, mi colpì l'odore. Un odore feroce come se lo zucchero fosse allo stesso tempo liquido e grasso. Non mi abbandonò per tutta la giornata, nascosto nelle narici, in fondo alla bocca, rendendo dolci anche la carne e il riso, le sigarette, fino alla pipa. Conserva quell'insipidezza di una distillazione naturale; ma la sua viscosità un po' bruciaticcia rievoca proprio la cottura e tutti gli artifici del lavoro. Tutto sommato è quello che serve a un prodotto finito per metà, in piena metamorfosi. Le grandi raffinerie, negli Usaquelle che ricevono questa sabbia umida per farne dei pezzi di zucchero bianco - sono sicuro che non hanno odore.

A Cuba non si raffina molto: questo aroma vigoroso e troppo organico è il suo vero odore. È quello che i cubani si ritrovano in fondo alla gola, quando consumano questo sottoprodotto pallido e fresco della loro industria principale, il guarapo, in altre parole: il succo della canna.

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Un'isola di zucchero grezzo! Chi ha quindi il coraggio di fermarsi nel bel mezzo dell'operazione? Si dice spesso che la metropoli compra dalle colonie i prodotti di estrazione, i prodotti alimentari. Lei stessa scoraggia, quindi, le industrie di trasformazione. Cuba, dominata da una mappa di colture che essa stessa non arriva nemmeno a portare alla loro metamorfosi ultima, offre, a prima vista, il profilo di un paese colonizzato. Adesso, eccola da quasi cinquant'anni indipendente e sovrana. Ho fiutato, dietro questa apparente contraddizione, una farsa, uno di quei tranelli dove la storia, qualche volta, fa cadere una nazione intera per dimenticarla, poi, per anni. O per secoli.

«Un paese che commercia con un solo paese muore»

C'erano della piantagioni di canna da zucchero prima del 1900. Anche ai tempi degli spagnoli c'erano degli investimenti yankee. Ma l'impotenza altezzosa dei proprietari non incoraggiava le grandi concentrazioni. Cuba usciva appena dali' epoca feudale quando, nell895, riprese in mano le armi contro la metropo- li: la «grande guerra» ispano-cubana non fu solamente una guerra anticolonialistica; il paese aveva voluto rimpastare le strutture ammuffite, fare, con cento anni di ritardo, la propria rivoluzione borghese e fondare la libertà civica sulliberalismo economico; i diritti del cittadino sopra quelli del proprietario. Un'industria modesta ma efficace: trasformazione, raffinatura; alla fine dell'o- perazione la cavalleria leggera dei prodotti di consumo.

Ma l'isola restava innanzi tutto agricola. Si diversificavano le colture per diversificare i clienti, si offrivano i raccolti a tutti; si vendevano al maggior offerente. José Marti, il maestro - morto prima della vittoriadi questa prima rivoluzione scriveva: «Un paese che commercia con un solo paese muore». Sessant'anni più tardi, un discorso di Castro gli risponderà: «Noi cubani non abbiamo mai avuto fortuna». I padri di quelli

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