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[Jean_Paul_Sartre]_Visita_a_Cuba(BookZZ.org)

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colpo, la violenza orgogliosa dei grandi signori e la loro sottomissione servile ai produttori stranieri, si dava sul campo l'indipendenza alimentare alla nazione; questa isola feconda aveva acquisito il diritto di produrre la sua materia; d'ora in poi avrebbero seminato il doppio del riso. Alla raccolta del 1960, Cuba, per questo alimento di base, non sarà già più soggetta a tributo. Per altri prodotti alimentari il cambiamento sarebbe stato ancora più forte: venne condotta e vinta, nell'anno 1959-1960, la battaglia dei pomodori. In questo settore, non contenti di soddisfare la domanda interna, i produttori facevano concorrenza in America latina agli antichi fornitori di Cuba. Ma soprattutto il governo diceva, a modo proprio, che l'innalzamento di livello della vita rurale non era in un primo tempo una misura di giustizia, ma un tentativo per rimettere in marcia l'economia nazionale con il rimaneggiamento delle strutture sociali.

I ricchi non possono più ingannare

L'isola, a causa dell'industria, aveva conosciuto cinquant'anni di marasma; l'industria non era potuta nascere a causa del mercato interno. In Inghilterra, durante una crisi, mi ricordo di aver visto scritta su tutti i muri questa pressante esortazione: «Buy british». Ma chi invece, prima del 1959 poteva essere esortato sui muri dell'Avana a «Comprare cubano»? I ricchi si beffavano dell'isola, i poveri non avevano i soldi. La conseguenza l'ho già detta: i poveri facevano crescere i dollari col sudore della propria fronte, li prelevavano, li davano ai ricchi che li mandavano ai produttori degli Usa. Le valute prendevano il largo: i ricchi ricevevano automobili e frigoriferi. Ma la nazione cubana non veniva mai pagata: qualsiasi fosse stato il suo lavoro si impoveriva di giorno in giorno. La riforma dava la soluzione: si sopprimeva per una categoria infima di consumatori la possibilità di rovinare tutti gli altri a causa di acquisti

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eccessivi all'estero; la riforma aveva il vantaggio di ridurre il tenore di vita di questi parassiti e, conseguentemente, i loro acquisti al di fuori: per scoraggiare assolutamente i ricchi a ingannare, il governo colpiva, inoltre, con tasse schiaccianti le importazioni di lusso. Queste due misure complementari (espropriazioni, tariffe doganali) erano legate: comprimevano l'arteria sanguinante, arrestavano l'emorragia. Questo non avrebbe significato niente, però, se la stessa legge, per merito della promozione dei poveracci, non avesse congiuntamente cambiato la condizione dei lavoratori per creare una domanda interna e stimolare l'industrializzazione.

Cuba non sarà più incatenata a un fornitore unico

Non bisogna credere a Babbo Natale; i cubani sanno che l'industrializzazione sarà lenta, che avrà bisogno di svilupparsi lentamente.

I capitali, le fabbriche, i macchinari, a Cuba, come dappertutto, hanno le proprie abitudini, le proprie inerzie; qualunque sia la domanda, non bisogna contare sul fatto che potrà far nascere le fabbriche dalla terra. Cuba vuole rinunciare alla sua economia coloniale; ciò significa che alle strutture classiche del sottosviluppo (industrie d'estrazione a grandi investimenti, produzione agricola) il governo propone di aggiungere un settore essenziale sviluppando le industrie di trasformazione. Ma bisogna essere modesti, anche a lunga scadenza. Cuba produrrà i suoi beni di consumo; non può neanche sognarsi - oggi, s'intende - di produrre le sue macchine utensili, il suo equipaggiamento; sarebbe un carico inutile e nefasto per una popolazione di sei o sette milioni di abitanti. L'industria pesante resterà quindi dov'è: all'estero. Ma l'indipendenza di un paese non reclama in nessun caso la soppressione delle sue importazioni; se si strappa al regime preferenziale che la incatena a un forni-

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tore unico - quindi a un unico cliente -se mette in equilibrio la bilancia del commercio estero subordinando l'incremento degli acquisti a quello delle vendite, se blocca con degli articoli le acquisizioni inutili e se determina con rigore le importazioni a interesse nazionale, fonderà la sua sovranità moderna su una strategia di scala mondiale, sempre pronta a garantire la sua libertà di manovra con dei ribaltamenti di alleanze e dei cambiamenti di clientela.

Quattordici mesi dopo la vittoria dei ribelli, centoventimila disoccupati hanno ritrovato un lavoro

In breve, i grandi proprietari vietavano allo stesso tempo la policoltura e l'industrializzazione. La riforma ha fatto capire ai cubani che la realizzazione immediata della prima avrebbe avviato subito la seconda. Non ha mentito: la policoltura e l'incremento della domanda interna sono una cosa sola; sotto la pressione delle masse rurali, si sono rimesse in marcia delle macchine che si erano fermate per colpa dei clienti; oggi, quattordici mesi dopo la vittoria dei ribelli, centoventimila disoccupati hanno trovato lavoro. La rivoluzione, in questo mese di maggio, ha mostrato il suo radicalismo: ha fatto a pezzi i grandi domini.

Ma poche persone si impaurirono; dopo le premesse della riforma era chiaro che la situazione stessa aveva imposto questo smembramento. La nuova squadra si beffeggiava delle ideologie: alcuni dirigenti le ignorarono, ad altri invece - come per esempio Oltuski, giovane ministro delle Comunicazioni - tutte le teorie sembravano degne d'interesse senza che nessuna li soddisfacesse: troppo generali o troppo particolari, alle migliori mancava di essere nate a Cuba, da una riflessione sugli accordi saccariferi.

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Una foresta vergine, gambi verdi e dolci

Sicuramente, c'era stata una resistenza vivace a una rivoluzione che si era proclamata socialista. Ma la Riforma agraria non si dava nessun nome. A giusto titolo; si attaccava a un regime di proprietà che non si incontrava quasi più - se non nei paesi arretrati - quindi: al regime feudale. La riforma spezzettò - due caballeria a famiglia - la terra riconquistata; che faceva in questo caso? Niente di più di quello che avevano fatto, un secolo e mezzo prima, le rivoluzioni che hanno cambiato l'aspetto dell'Europa: introduceva nei campi la proprietà borghese. In altri casi, al contrario, il dominio passava, indiviso, a una cooperativa. Questa nuova assegnazione sembrava ispirarsi chiaramente alle esperienze socialiste. Insomma, tutto accadeva come se la proprietà feudale, sparendo, generasse le due modalità di appropriazione che si ritrovano oggi dappertutto. Ma la cooperativa, a Cuba, era scritta nella natura delle cose. La canna, in tutti i casi, necessita di grandi spazi. Si sottraggono, ovviamente, le terre incolte dei vecchi latifondi per darle ad altri coltivatori affinché creino nuove colture. Ma non si potrebbe dividere la piantagione stessa, con i suoi milioni di canne, senza polverizzarne la produzione di zucchero. La riempiamo con ventimila piccoli produttori isolati, contrapposti dalla concorrenza, dalla diversità degli utili e delle tecniche? E come indichiamo, in questa foresta vergine, i confini di ogni proprietà? C'è anche la fabbrica, chi passa le comande e chi invece aspetta il raccolto: a cosa serve possedere, in particolare, se bisogna tagliare insieme i gambi e mettere in comune i mezzi di trasporto?

Il padrone non tornerà più nel suo palazzo vuoto

In una parola, la canna esige l'unità di un'impresa comune; in altri tempi era la comunità feudale dei mendicanti, dei gior-

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nalieri asserviti, indebitati, senza terra: tutto questo domani sarà la cooperativa di produzione. Non sono i princìpi o le opinioni che contano: è il vecchio regime stesso che si trasforma in un'organizzazione collettiva.

E questo per una sola ragione: perché la piantagione feudale, per adattarsi alle esigenze dello zucchero, si era già organizzata come una comunità di lavoro. È la fortuna di Cuba, non ci si troveranno le contraddizioni che hanno insanguinato poc 'anzi l'Europa socialista. La necessità di lavorare la terra in comune, tra i lavoratori stessi, non si scontrerà con la volontà di possederla individualmente.

Rileggiamo il testo della Riforma agraria; vediamo apparire, tutto a un tratto, furtivamente, la parola «cooperativa» e la legge non si preoccupa mai di definirla o di giustificarla. La ragione è molto semplice: frutto delle tradizioni e delle necessità, la cooperativa esisteva già prima di essere istituita. Quelli che, fino al 1958, visitavano un grande dominio, cosa ci trovavano?

Un palazzo vuoto, un amministratore, una squadra di operai agricoli. Il palazzo resta vuoto anche oggi; il padrone non ci tornerà più; l'amministratore ha preferito sparire o cambiare mestiere; è la squadra che rimane, con la sua conoscenza pratica, la sua esperienza del terreno, i suoi strumenti; è sempre lei che, da un regime a un altro, assicura la continuità della produzione; questi uomini si conoscono tutti, hanno penato, sofferto insieme, soprattutto hanno l'abitudine di lavorare insieme. Siccome questa collettività rudimentale e tradizionale, rodata da molto tempo, si trova sola sul luogo, siccome la sua presenza vi è indispensabile, la riforma ne fa, impercettibilmente, l'u- sufruttuaria del dominio che essa stessa coltiva; eccola battezzata «cooperativa».

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Le drogherie chiudono bottega

Praticamente è una trasformazione fondamentale; la squadra venderà la raccolta alla fabbrica dello zucchero senza intermediario e- almeno per principioincasserà l'integralità del guadagno. Prima del 1959, i giornalieri si rifornivano dalle drogherie del villaggio più vicino; questo educato commerciante, sperduto nella natura e senza concorrenti a meno di venti leghe, si considerava un monopolio e stabiliva prezzi estremi; approfittando della disoccupazione stagionale, non disdegnava la pratica del- l'usura; per questi due motivi, si guadagnava il denaro dei poveri senza pietà, ma ancor più subdolamente la loro simpatia.

Il nuovo Stato decise di eliminare questi piccoli approfittatori per mezzo della concorrenza; incaricò l'Inra di facilitare la produzione cooperativa organizzando la cooperativa nazionale del consumo. In ogni piantagione, nacquero i «magazzini del popolo», il più vicino possibile ai lavoratori; ci si trovavano i generi di prima necessità al prezzo di costo (più il 10 per cento: spese di trasporto, salario degli impiegati, locali ecc.). Il commercio privato non teneva il passo; i droghieri chiudevano bottega.

Il denaro della Lotteria nazionale serve a costruire casette

Il denaro della Lotteria nazionale passa nelle mani di un altro istituto, l'Inav, che li destina all'edilizia; ogni famiglia riceve i materiali di base: una cassaforma in metallo, un po' di lamiera ondulata e del cemento. Dopo questo bisogna costruire; tutti ci si mettono; la domenica gli operai vengo dalla città e danno una mano. Viene stabilita la pianta di ogni casa: la si spiega ai contadini che ci si attengono. Ma nel settore privato, il compito è relativamente semplice; si rimpiazza la scomodità solitaria di un bohio con la comoda solitudine della nuova dimora. Nel settore sociale non basta costruire degli alloggi,

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bisogna concentrarli. Fino alla Riforma agraria, le squadre contadine non avevano questa figura forte della solidarietà: una comunità di abitazioni. Lavoravano per quattro mesi le terre dei padroni e si ammucchiavano un po' ovunque per dormire. Quando veniva la primavera, con la disoccupazione, si sparpagliavano; gli operai partivano in tutte le direzioni per raggiungere, a volte all'altro capo dell'isola, le proprie famiglie nelle loro catapecchie. Ormai, la cooperativa deve risiedere sul luogo di lavoro. Il governo, consigliato dagli architetti, ha stabilito un modello di villaggio; il più economico e - visto che i lavoratori lo devono realizzare da soli - il più semplice. Tutte le cooperative ne hanno ricevuto o ne riceveranno una copia. Possono adeguarlo alle circostanze specifiche; i dirigenti faranno prova di intransigenza su un solo punto; il villaggio si deve completare da solo; si collocheranno le abitazioni private attorno alla scuola, al «magazzino» e agli altri edifici pubblici.

Le cooperative ronzano come sciami

Non si tratta di incitare i contadini a condurre la vita di comunità; i cubani non si abituerebbero, sono troppo attaccati alla loro intimità familiare. Si vorrebbe semplicemente far capire loro che il loro villaggio non è un accozzaglia, che questo gruppo di abitazioni non può ridursi a un numero a caso di vicinati casuali. Abitano insieme perché lavorano insieme. Se vogliono approfondire la loro «coscienza rivoluzionaria», questa è la verità che devono scoprire ogni mattina aprendo la finestra.

In questo mese di marzo del 1960, quasi un anno dopo la promulgazione della riforma, tutto resta ancora da fare ma l'essenziale è fatto: ovunque si è potuto, le cooperative si sono messe all'opera; hanno, a volte, anticipato la data fissata dal governo e messo in cantiere il villaggio prima di avere ricevuto la pianta della costruzione. Ne ho viste dappertutto, ronzanti

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come sciami, desiderose di far aumentare vertiginosamente, di giorno in giorno, di ora in ora, la produzione nazionale attraverso l'aumento continuo della loro produzione individuale. I lavoratori discutono senza tregua: il responsabile locale non è stimato, elencano i suoi difetti e gli rimproverano di non aver usato le loro competenze personali e, se tessono le sue lodi, è sicuro che se lo sia proprio meritato. Ognuno vuole inventare, organizzare, razionalizzare.

Una falce nera alla cintura: tutto quello che hanno

Ma questa turbolenza festosa testimonia giustamente l' accordo profondo di tutti con il sistema cooperativo; non c'è neanche una delle loro critiche che non presupponga un consenso preliminare.

Razionalizzare, certo, organizzare i compiti per produrre di più, ma senza mai uscire dal quadro della produzione socializzata. Quando chiedo ai miei amici cubani la ragione di una tale armonia, mi rispondono elencandomi i vantaggi della riforma: il destino dei lavoratori della cooperativa è incomparabile a quello di alcuni giornalieri.

Ne parlavo ancora ieri l'altro quando si era in macchina per andare a Matanzas: «Non hanno voglia, qualche volta, di spartirsi le terre?».

Il mio vicino mi rispondeva: «Perché dovrebbero? Il gusto della proprietà privata non è radicato dall'inizio nel cervello dell'uomo. Ammettendo che sia una tentazione reale, almeno bisogna averne avuto l'esperienza. Questi uomini, dal padre al figlio, non hanno posseduto mai niente, salvo la falce nera che hanno attaccata alle cinture. Hanno avuto l'eredità della fame, della miseria e delle malattie, questo è tutto; vogliono essere liberati, vogliono avere un tetto sulla testa, lavorare per se stessi lavorando per gli altri, aumentare continuamente il loro teno-

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re di vita, non avere altro padrone che la nazione e integrarsi alla società cubana; hanno quello che desiderano, anzi, l' avranno. Sono delle rivendicazioni tangibili; inoltre, il possesso del territorio - individuale, ma anche collettivo - capisce bene che per loro è un'astrazione».

[France-Soir, 8 luglio 1960)

Per gli Stati Uniti la faccenda è chiara; Castro si è impossessato del potere senza dare la sua candidatura; in quattordici mesi che lo conserva, non ha mai consultato il corpo elettorale e non ha neanche mai avuto la cortesia di dire agli elettori la data - se rinviata o da rinviare ancora - della loro prossima convocazione. In poche parole, la dittatura nuda. I cittadini americani sono profondamente attaccati alle loro istituzioni. Libera impresa e parlamentarismo sono, ai loro occhi, le mammelle della democrazia. O c'è democrazia, o c'è fascismo o comunismo, ben inteso; per loro, tutti i regimi singolari sono da mettere nello stesso sacco. La stampa ne approfitta; finito il regime di Robin Hood: il pubblico, spaventato, scopre al suo posto Hitler. O Stalin. A scelta.

Fide!, dicono gli americani, ripristina la Costituzione ma non la applica

Fidel preoccupava tanto più che aveva fatto ripristinare, dal primo giorno, la Costituzione del 1940.

«Per fare cosa?», chiedevano i giornali del continente «per fare cosa, visto che non la applica?». In effetti, questo testo rispettabile prevedeva un parlamento eletto e dei ministri responsabili. Del parlamento - eletto o no - non vi si trovava traccia nel nuovo regime. I ministri c'erano; forse erano respon-

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sabili, ma nessuno sapeva di fronte a chi. I puritani del nord furono esasperati da questa dichiarazione di principio; ci videro un'ipocrisia, quella che noi chiamiamo, in Francia, un omaggio del vizio alla virtù. Questa Costituzione era un imbroglio; senza interruzione violata dal despota che l'aveva promulgata, un altro despota, mandando via il primo, l'aveva raccolta dal marciapiede e ristabilita in tutta la sua gloria, per violarla a sua volta. Gli yankee hanno una certa idea della democrazia; questa idea subordina - se non in pratica, almeno in teoria - l'economia alla politica.

Ecco come suona: il Presidente degli Stati Uniti ha sollecitato il libero suffragio dei liberi individui che lo hanno liberamente eletto; per mantenere il suffragio al proprio partito, proteggerà la libertà individuale e, in conseguenza, la libera proprietà. Erede di un tiranno e tiranno lui stesso, Castro non deve fare altro che indire delle elezioni di una assemblea eletta che controllerà i suoi capricci; del consenso se ne infischia, non vuole altro che l'obbedienza; di colpo l'isola diventa una sua proprietà, passa allivello di proprietà privata. In breve, il parlamentarismo crea, mantiene e moltiplica le forme private del- l' appropriazione e della produzione; la dittatura conduce al socialismo, ovvero, secondo questi intellettuali, alla concentrazione dei beni di tutti nelle mani di uno solo.

L'oneroso bagliore del neon straniero

I malintesi vengono da qui; Castro e i suoi amici hanno, esattamente, l'idea opposta. Democratici, i cubani lo sono profondamente, questo ci sarà chiaro più avanti. Ma le semicolonie, recentemente liberate, non hanno il nobile idealismo della loro metropoli; guardando colare sui loro muri l'oneroso bagliore del neon straniero, meditando sui legami che univano la canna, la miseria, la schiavitù e l'impotenza, i giovani cuba-

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