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Anestesie

Anche oggi. Addormentare. Dosare la quantità giusta per dare un sonno di plastica, senza sbavature, senza ripensamenti. Ed io, come al solito, non ho chiuso occhio. Come se il sonno degli altri rubasse il mio.

Cinque operazioni. Li guardo, quando il siero dell’incantatore di serpenti comincia a fare effetto, e, nell’istante in cui stanno per perdere coscienza, mi sento potente. Investito della leggerezza rocciosa di una madre che canta una ninna nanna al suo bambino, e lo vede finalmente crollare. Ma io lo faccio per mestiere, non per amore. Vengo pagato per far dormire, per non far sentire il dolore.

La mia piccola telecamera intorno al polso riprende gli occhi che si piegano, come la vela immensa di una barca delusa dal vento che sparisce all’improvviso. Ogni volta ritrovo quel momento, quel preciso momento in cui l’angoscia per l’operazione si abbandona ad una piccola morte ad ore. Non sarebbe una bell’idea, che tutti, in ogni stagione, fossimo anestetizzati per un po’? Forse così ci abitueremmo all’idea della nostra assenza, e la morte sarebbe un insieme di istanti ogni volta più lungo, sempre più ravvicinato, fino a diventare una linea continua, il naturale prolungamento di questo torpore.

E così fotografo. Conservo le immagini di tutti quelli che ho addormentato, mentre guardano me e poi l’occhio implacabile della luce in sala operatoria, che sembra ripetere all’infinito le parole di San Giovanni. Sia fatta la luce. E la luce fu. Ma ora è quasi buio. Sta diventando buio. Metti la tua vita nelle mie mani, conti fino a quanto riesci a contare, poi vai dove io non posso arrivare. Ma quella frazione, quell’angolo riflesso, io lo vedo. Lì c’è tutto. Tutto quello che ti ha portato su questo lettino e tutto quello che vorresti che succedesse dopo. La paura del bimbo perso nel bosco. Subito dopo l’incoscienza arriva anche per te, prima di arrivare a contare fino a dieci, fino a venti, fino a tutti i numeri che non conti più, e che restano ammonticchiati fuori di te, residui di smarrimento matematico. In qualche parte che non so, ora sei.

Solo una volta. Solo una volta mi è parso che lei. Lei non si è addormentata. Ha fatto finta di dormire, però io me ne sono accorto. Dopo anni di esperienza. Sì, ha chiuso gli occhi, e tutti hanno pensato che fosse incosciente. Ma io no, io sentivo che era lì. A rimproverare il mio fallimento, il dosaggio sbagliato, l’occhio semiaperto semichiuso, ancora più implacabile di quello artificiale. E’ vero, prima mi aveva detto di avere un sonno leggerissimo, che non si sarebbe addormentata neanche stavolta, io la prendevo in giro per tranquillizzarla, le sembrava troppo strano che qualcuno potesse avere il potere supremo di toglierle la coscienza, lei che resisteva ad ogni stanchezza, ad ogni finestra sprangata, ad ogni silenzio tombale.

E lei probabilmente stava sentendo tutto. Forse quello che dormiva ero io, adesso. Io che non riuscivo a vedere, stavolta, il passato e il futuro. Solo un presente spaventoso, quasi troppo cosciente. In cui non poter entrare, perché era sacro come il fiume dove i vivi ed i morti si bagnano insieme. Ti fa male?, le chiedevo senza parlare, implorandola di darmi un cenno di vita. Cosa potrei fare, per alleviare questa sofferenza? Ed in modo ridicolo mi è venuta in mente la favola della bella addormentata nel bosco. Forse dovrei farla mia, questa favoletta stupida, ma all’incontrario. Dovrei baciarla per farla addormentare, per tacere tutto questo dolore che sale e che io non sopporto. Un dolore che non ha tempo, che si raggruma nella ferita. Quando mai, del resto, il dolore ha un tempo? Il dolore resta, c’è e basta. Anche nella ripetizione della parola, che non ha sinonimi. Che importanza ha quando è nato? Ormai ha perso la sua connotazione cronologica, è presente a sé stesso come il braccio che muoviamo per prendere un bicchiere d’acqua o la parola che scegliamo di pronunciare quando siamo dal fornaio ad ordinare il pane.

Ed ora io lo vedo, tutto questo suo dolore, e attanaglia me, me più che lei.

Quando addormento le persone, tengo tutto sotto controllo, il battito del cuore, la pressione. Ora invece il suo corpo mi sfugge, c’è solo questa materia informe e pesante che si solidifica davanti a me, sospesa a mezz’aria. Un male primitivo, ancestrale, che non chiede remissione, che non espia nulla se non il suo esserci. Orgoglioso. Lucido. Felino.

Devo fare qualcosa. Baciarla. Davanti al chirurgo, davanti agli assistenti. Baciarla per darle conforto, per dirle che non è sola, che tutto questo sparirà, forse sparisce da subito.

Non so se l’ho immaginato o l’ho fatto veramente, ma a me pare di esserci riuscito. L’ho baciata, un inchino veloce, un posizionamento di labbra impercettibile, scambiato magari per un controllo un po’ anomalo dello stato della paziente.

Sembra ringraziarmi. E’ come se il suo sguardo sofferente, sotto le palpebre, sorridesse d’un tratto. Il corpo. Il battito. La pressione. Non ce la fa. No, non ce la fa. Se ne sta andando, dice il chirurgo, dicono gli altri Non ho mai capito questa frase, più lieve dire sta morendo, precipitandosi o innalzandosi verso un unico punto. Se ne sta andando, violento lo sento rimbombare, mi dà l’idea che vi siano troppe strade al di là della soglia, un’indecisione che rimbalza a piccoli salti, evanescenti, vaghi.

Troppo dolore. Troppa coscienza. Troppa veglia. Come me. Due insonni vagabondi. Con il mio bacio ti ho dato la morte. Ora sì che ti sei addormentata. Il dolore a mezz’aria è diventato un leggero manto che si sposta di qualche millimetro sulla coperta del letto. Lo vedo stasera davanti a me, adesso dice che il peso è diventato sabbia sulla riva bagnata, parla, e forse è la favola che nessuno mi ha mai raccontato per farmi sprofondare nel sonno. E’ un momento, perdo lucidità, la luce è già spenta, dovrei cambiare lavoro, comincio a contare, l’occhio della sala operatoria non può guardarmi, mi sembra lentamente che sto per dorm

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