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Al vicinato non far sapere che la tua voce matura le pere

La mattina Gelsomino andò nei campi e vide che le pere erano mature. Le pere fanno così: senza dirvi niente lavorano, lavorano, una mattina andate a vederle e sono mature, è ora di coglierle.

“Peccato, — disse Gelsomino fra sé — non ho portato la scala. Andrò a casa a prenderla e porterò anche la pertica per scuotere i rami più alti”.

Invece in quel momento gli venne un’idea, quasi un capricco.

— Se provassi con la voce? — si domandò.

E un po’ per ischerzo, un po’ sul serio, si piantò sotto l’albero e lanciòun grido:

— Giù!

— Patapum, patapàm, patapùmfete, — gli risposero le pere, piovendogli intorno a centinaia.

Gelsomino passò a un altro albero e fece lo stesso. Ogni volta che gridava “giù”, le pere si staccavano dal ramo, come se fossero state lì solo ad aspettare quell’ordine, e cadevano a terra. La cosa mise Gelsomino di buon umore.

“Fatica risparmiata, — pensava, — peccato che non ci abbia pensato prima ad usare la voce al posto della scala e della pertica”.

Mentre faceva il giro del frutteto, lo vide un contadino che zappava nel podere accanto: si fregògli occhi, si pizzicò il naso, tornò a guardare, e guando fu ben certo di non sognare, corse a chiamare la moglie.

— Guarda anche tu, — le disse termando. — Gelsomino è sicuramente uno stregone.

La donna guardò, e cadde in ginocchio esclamando:

— È un santo.

— Ti dico che è uno stregone!

— E io ti dico che è un santo!

Marito e moglie, fino a quel giorno, erano andati abbastanza d’accordo: ma in quel momento misero mano lui alla zappa, lei alla vanga e stavano per difendere con le armi le loro opinioni, quando il contadino propose:

— Andiamo a chiamare i vicini. Che vedano anche loro, sentiamo anche il loro parere.

L’idea di correre a chiamar gente, e di aver materia per spettegolare un bel po’, convinse la donna a posare la vanga. Prima di sera tutto il paese sapera quel ch’era successo e la gente si era divisa in due partiti: uno sosteneva che Gelsomino era un santo, l’altro che Gelsomino era un stregone. Le discussioni crebbero come le onde del mare quando comincia a soffiare il maestrale.

Scoppiarono anche delle liti, ci furono dei feriti, leggeri per fortuna: uno, per esempio, si scottò con la pipa percé, nel fevore della discussione, se l’era cacciata in bocca dalla parte del fornello. I carabinieri non sapevano che pesci pilgiare, e difatti non ne prendevano: passavano da un gruppo all’altro predicando la calma ai due partiti.

I più fanatici si diressero verso il podere di Gelsomino: alcuni per strapparne un ricordo, perché era terra benedetta, altri per devastarlo, perché era terra stregata. Gelsomino, nel veder correre tutta quella gente, pensò che fosse scoppiato un incendio da qualche parte, e afferrò un secchio per aiutare a spegnere le fiamme. Ma la gente si fermòdavanti alla sua porta, e Gelsomino sentì che si parlava di lui.

— Eccolo, eccolo!

— È un santo.

— Macché santo: è uno stregione. Ha anche il secchio per fare le magie, guardate.

— Stiamo lontani, per carità! Se ci butta addosso quella roba siamo perduti.

— Quale roba?

— Ma non vedete? È pece dell’inferno: roba che dove tocca passa da parte a parte e non c’è medico che possa tappare il buco.

— È un santo, è un santo!

— Ti abbiamo visto, Gelsomino: tu comandi ai frutti di maturare ed essi maturano, comandi loro di cadere e cadono.

— Siete diventati tutti matti? — domandò Gelsomino. — È solo per colpa della mia voce. Fa uno spostamento d’aria come quando soffia un ciclone.

— Sì, sì, lo sappiamo, — gridò una donna, — tu fai i miracoli con la voce.

— Macché miracoli, sono stregonerie!

Gelsomino buttò per terra il secchio, con un gesto di rabbia, entrò in casa e tirò il catenaccio.

“La mia pace è terminata, — rifletteva. — Non potrò più fare un passo senza che la gente mi corra dietro. Di sera, a veglia, non parleranno che di me, e spaventeranno i bambini raccontando loro che sono uno stregone. È meglio che me ne vada. Del resto, che cosa faccio in questo paese? I miei genitori sono morti, i miei migliori amici sono caduti in guerra. Me ne andrò per il mondo e proverò a far fortuna con la mia voce. C’è gente pagata per cantare: è strano, perchè nessuno dovrebbe essere pagato per una cosa che fa piacere come cantare, ma è così. Forse riuscirò a diventare un cantare anch’io”.

E pensa questa decisione, mise le sue poche cose in uno ziano e uscì nella via. La folla gli fece largo, sussurrando. Gelsomino non guardò nessuno. Teneva gli occhi fissi davanti a sè e non diceva niente. Ma quando fu abbastanza lontano, si voltò a guardare un’ultima volta la sua casa.

La gente era ancora là, e se lo additava come se fosse stato un fantasma.

“Ora gli faccio io uno scherzo come si deve”, — pensò Gelsomino.

Si riempì i polmoni d’aria e gridò:

— Addio! — con tutta la potenza della sua voce.

L’effetto di quel saluto fu immediato: gli uomini si sentirono portar via di testa il cappello da una ventata improvvisa, e qualche vecchia signora, purtroppo, si trovò da un attimo all’altro con la testa più calva di un uovo, a rincorrere la sua parrucca che aveva preso il volo.

— Addio, addio! — ripetè Gelsomino, ridendo di cuore per la prima monelleria della sua vita.

Cappelli e parrucche si riunirono in uno stormo, come uccelli migratori si alzarono fra le nuvole, sospinti dalla forza straordinaria della voce, e in pochi minuti disparvero. Si seppe in seguito che erano andati a ricadere a distanza di parecchi chilometri: qualcuno passò perfino il confine.

Anche Gelsomino, qualche giorno dopo, varcava il confine e scendeva nel più strano paese di questo mondo.

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