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Bananito pittor di cartello, lascia il pennello e prende il coltello

Il pittore Bananito, tutto solo nella sua soffitta, quella sera non riusciva a prendere sonno. Accoccolato su uno sgabello, contempalava i suoi quadri e rifletteva malinconicamente:

— È inutile, ci manca qualcosa. Se questa cosa non ci mancasse, sarebbero dei capolavori. Ma cos’e che ci manca? Ecco il problema!

In quell momento Zoppino, che si era arrampicato su per i tetti pensando di entrare dalla finestra senza disturbare il padrone di casa, saltò sul davanzale.

«Oh, oh, siamo ancora svegli, — miagolò mentalmente. — Aspetterò qui. Non voglio parere indiscreto. Quando Bananito dormirà gli chiederò in prestito i colori senza che se ne accorga. Intanto darò un’occhiata ai quadri».

Quello che vide lo lasciò senza fiato.

«Secondo me, — pensò, — c’è qualcosa di troppo. Se non ci fosse, sarebbo dei quadri passabili. Ma cosa c’è di troppo? Ci sono troppe zampe. Quel cavallo, per esempio, ne ha addirittura tredici. Pensare che io ne ho tre sole... E ci sono anche troppi nasi: quel ritratto ne ha tre in mezzo a una sola faccia. Non invidio quel signore: se gli capita un raffreddore consuma tre fazzoletti per volta. Ma ora che fa?»

Bananito si era alzato dal suo sgabello, pensando: «Forse ci manca un po’ di verde... Si, si, è proprio quello che ci vuole».

Diede mano ad un tubetto, lo spremette sulla tavolozza e cominciò a distribuire pennellate verdi su tutti i quadri: sulle zampe del cavallo, sul nasi del ritratto, negli occhi di una signora che ne aveva sei, tre per parte.

Poi si ritrasse di qualche passo e socchiuse gli occhi per giudicare l’effetto del suo lavoro.

— No, no, — borbottò, — dev’essere un’altra cosa. I guardi sono brutti come prima.

Zoppino, dal suo osservatorio, non potè udire queste parole, ma vide Bananito crollare il capo tristemente.

«Sfido che non è contento, — pensò Zoppino. — Non vorrei essere nei panni di quella signora con sei occhi se le capitasse un abbassamento di vista: occhiali con sei lenti debbono costare molto cari».

Bananito prese un altro tubetto, lo schiacciò sulla tavolozza e tornò a spennellare un po’ dappertutto sui suoi quadri, saltando qua e là per la stanza come una cavalletta.

«Del giallo… — pensava, — sono sicuro che manca un po’ di giallo».

«Aiuto, — pensava Zoppino dal canto suo, — adesso fa una frittata generale».

Ma Bananito aveva già gettato a terra tavolozza e pennello. C’era salito coi piedi e li capestava rabbiosamente, strappandosi i cappelli.

«Se conti nua così, — pensò Zoppino, — si ridurrà la testa pelata come quella di rè Giacomone. Quasi quasi lo vado a consolare. Ma se si offendesse? Ai consigli dei gatti nessuno ha mai dato retta, e del resto sarebbe una cosa difficile, perchè la lingua dei gatti non la capisce quasi nessuno».

Bananito ebbe compassione dei propri capelli:

— Basta così, decise, — prenderò un coltello in cucina e fatò a pezzi tutti i quadri. Il pezzo più grosso deve essere più piccolo di un coriandolo. Si vede che non sono nato per fare il pittore.

La “cucina” di Bananito era un tavolino in un angolo della soffitta, su cui erano posati un fornello a spirito, un pentolino, una scodella e delle postare. Il tavolino si trovava proprio sotto la finestra e Zoppino dovette nascondersi dietro un vaso di fiori per non essere veduto. Anche se non si fosse nascosto, però Bananito, non avrebbe potuto vederlo perchè i suoi occhi erano pieni di lacrime grosse come noci.

«E ora che fa? — si domandava Zoppino. — Prende un cucchiaio? Avrà fame... Ma no, posa il cucchiaio e prende la forchetta. Posa anche quella e afferra il coltello. Comincia a preoccuparmi. Non avrà mica intenzione di ammazzare qualcuno? Chissà, forse i suoi critici. In fondo, se i suoi quadri restano tanto brutti, dovrebbe rallegrarsi. Infatti, quando li esporrà, la gente non portà dire la verità, tutti dovranno dire che sono capolavori: e lui guadagnerà un pozzo di quattrini».

Mentre Zoppino faceva queste riflessioni, Bananito aveva preso dal casseto una cote e si era messo ad affilare la lama dal coltello.

— Voglio che tagli come un rasoio. Della mia opera non resterà traccia.

«Se ha intenzione di uccidere qualcuno, — pensò Zoppino, — vuol essere ben sicuro che il colpo riesca. Un momento: e se volesse uccidere se stesso? Sarebbe un delitto anche peggiore. Qui busogna fare qualcosa, assolutamente. Non c’è tempo da perdere. Se le oche romane hanno salvato il Campidoglio, un gatto zoppo può ben salvare un pittore disperato».

E il nostro piccolo eroe si gettò nella stanza con le sue tre zampe miagolando a perdifiato. Nello stesso momento si spalancava la porta e irrompeva nella soffitta, sudato, ansante, coperto di polvere e di calcinacci... indovinate chi?

— Gelsomino!

— Zoppino!

— Che gioia rivederti!

— Ma sei proprio tu, Zoppino mio?

— Per piacere, contami le zampe!

E sotto gli occhi del pittore che era rimasto lì col coltello per aria e con la bocca aperta, Gelsomino e Zoppino si abbracciavano e ballavano.

Per quale combinazione il nostro tenore fosse giunto in cima a quella scala, a spingere proprio quella porta, proprio in quel momento, vi sarà ora spiegato per filo e per segno.

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