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  1. Qual è il passato remoto di coprire, coprii o copersi?

Vale il discorso fatto a proposito del passato remoto di aprire. Anticamente venivano usate tutte e due le forme; oggi è molto più comune il tipo io coprii, lui coprì, loro coprirono, che per questo vi consigliamo. Ma se per caso ricorreste a io copersi, lui coperse, loro copersero, non fareste certo un errore. E ciò che abbiamo detto per coprire vale anche per i suoi composti, cioè ricoprire, riscoprire e scoprire.

  1. Qual è il passato remoto di cuocere?

La risposta è: cossi, cuocesti, cosse, cuocemmo, coceste, cossero; forme rare che, più che nell’italiano reale, sopravvivono nella lingua dei giochi televisivi.

  1. Qual è il passato remoto di dare: diedi o detti?

Sono corrette entrambe le forme, anche se la più comune e diffusa è la prima, che continua l’originale latino. Detti ha preso piede nel corso del Quattrocento per l’influsso esercitato da stetti, passato remoto di stare.

  1. Qual è il passato remoto di rifletterei riflettei o riflessi?

Il verbo riflettere ha una doppia anima: il suo passato remoto può essere riflettei o riflessi. Quando è riflettei significa «considerare», quando è riflessi significa «mandare riflessi».

Imperfetto sarà lei!

L’imperfetto è, a nostro avviso, vittima di due ingiustizie. La prima è che, fra i tempi che esprimono il passato, l’imperfetto è quello di cui ci si occupa di meno. Gli igienisti della lingua sembrano avere a cuore le sole sorti del passato remoto e la presunta prepotenza esercitata nei suoi confronti dal passato prossimo, come se l’imperfetto non contasse niente.

La seconda ingiustizia riguarda il nome dato a questo tempo. Provate a cercare su un buon vocabolario della lingua italiana la parola imperfetto. La prima cosa che vi racconterà è che «imperfetto» è qualcuno o qualcosa «che ha qualche difetto». Giusto. Ma il tempo verbale di cui ci stiamo occupando di difetti non ne ha. Imperfetto, nel caso del tempo, significa «non definito», «non concluso». Dal punto di vista terminologico, infatti, l’imperfetto raccoglie l’eredità del suo omologo latino praeteritum (= passato) imperfectum (= non definito, non concluso). Indefinitezza e non compiutezza sono, effettivamente, le caratteristiche di questo tempo, che indica un’azione o una condizione continuata, prolungata o ripetuta nel passato.

«Quando arrivò il postino, Anna preparava la colazione»: l’imperfetto (in corsivo) indica che l’azione di «preparare la colazione» si stava svolgendo proprio nel momento in cui arrivò il postino; non sappiamo se la preparazione della coazione si sia poi conclusa, o se Anna sia passata a occuparsi di altro, con o senza il postino.

L’imperfetto è il tempo verbale proprio del racconto, della narrazione di qualunque tipo, epoca e qualità (per quest’ultimo aspetto, affidiamo gli esempi che seguono al giudizio del lettori).

«Silvio Berlusconi era il portaborse di Bettino Craxi» (Umberto Bossi, dichiarazione rilasciata al «Corriere della Sera», 12 marzo 1995).

«Una notizia tragica letta sui giornali: ‘É bruciata la biblioteca di Totti, conteneva due libri’. Totti è disperato: ‘Ahó, er secondo dovevo ancora finillo de colorare!’» (Francesco Totti, Tutte le barzellette su Totti raccolte da me, 2003).

«Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto» (Dante, Inferno, V, 127-129).

«Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra» (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi).

Le buone qualità dell’imperfetto non finiscono qui. Ci avete mai pensato? L’imperfetto è il tempo dei nostri sogni (i linguisti parlano di imperfetto onirico): «Ho sognato che ero il segretario del PD... Nel partito andavano tutti d’amore e d’accordo, nessuno litigava con nessuno...»

Ancora, l’imperfetto è il tempo dei nostri giochi di bambini (i linguisti parlano di imperfetto ludico): «Facciamo che tu eri la malata e io ero il dottore...»

In quest’ultimo esempio, l’imperfetto si rivela un tempo un po’ malizioso. Ma in altri, è un tempo molto ben educato. Se vogliamo attenuare e rendere più cortese una richiesta, lo adopereremo al posto del presente. Rivolgendoci al nostro negoziante con una frase del tipo «Volevo due etti di stracchino» (invece di «Voglio due etti di stracchino»), è come se dicessimo: «Quando, un minuto fa, sono entrato nel suo negozio, volevo dello stracchino... ma se non può o non vuole darmelo, non fa niente». Rientra fra queste espressioni di cortesia il tipo «Ti cercavo per chiederti se hai un libro che non trovo», in cui l’imperfetto può sostituire non solo il presente (= ti cerco), ma anche il passato prossimo (= ti ho cercato).

Sarà...

Il futuro, di questi tempi, è frequentatissimo. In ogni parte d’Italia sono spuntate e continuano a spuntare associazioni che se ne occupano e preoccupano, accogliendolo già nel nome che si danno: Farefuturo, Futuro e libertà per l’Italia, Futuro insieme, Italia futura, e chi più futuro ha più ne metta. In particolare, questo tempo verbale sembra godere di ottima salute nel mondo della politica.

Ecco qualche esempio:

«La ‘regia di Roma rilancia Veltroni, ma lui: andrò in Africa» («Corriere della Sera», 28 maggio 2003).

«Non mi ricandiderò al congresso di ottobre» (Dario Franceschini, «Corriere della Sera», 5 marzo 2009).

«‘Con questa manovra non ci sarà nessun cambio di programma: realizzeremo il federalismo fiscale e la riduzione delle tasse. È nel nostro dna diminuire la pressione tributaria’. Ad assicurarlo è stato il premier Silvio Berlusconi in una conferenza stampa a palazzo Chigi» (Adnkronos, 26 maggio 2010).

«Scajola: Venderò la casa, in beneficenza parte dei soldi» («Corriere della Sera», 10 settembre 2010).

«Micciché, che fu promotore di Forza Italia in Sicilia ed è stato l’artefice del trionfo siciliano del centrodestra sull’isola nel 2001 (61 seggi a 0), spiega di essere ‘più berlusconiano di Berlusconi: non lo tradirò mai’» («Corriere della Sera», 18 settembre 2010).

«Sarà...» avrà sussurrato qualcuno dei nostri lettori a commento di queste frasi, dimostrando, in tal modo, di saper usare il futuro meglio degli uomini politici. Questo tempo, infatti, serve non solo a fare promesse che non saranno mantenute, ma anche a esprimere il dubbio del saggio, il distacco dello scettico, il disincanto di chi sa. In particolare, oltre che per collocare un fatto nel futuro, esso si può usare per esprimere un dubbio, reale («Che ora sarà?») o ironico («Sarai soddisfatto, immagino...»); oppure per togliere importanza a un argomento, ammettendo una certa cosa senza darle troppo peso: «Il ministro Calderoli non sarà uno stinco di santo, però in questa bufera si è persa la testa» (monsignor Velasio de Paolis intervistato da Giacomo Galeazzi, «La Stampa», 22 febbraio 2006); «Sono contento per Donadoni. Non sarà un genio, ma non è neppure quel ‘dilettante allo sbaraglio’ spacciato dai duri e puri del ‘gufìsmo’ a oltranza» (Roberto Beccantini, «La Stampa», 18 novembre 2007). Rientra in questa tipologia l’espressione «Sarà» da noi ricordata poco fa, che è una forma di risposta scettica con cui si prendono le distanze da un’affermazione.

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