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Il pronome Parole in crisi d’identità

Il pronome patisce da secoli un forte complesso d’inferiorità nei confronti del nome. Per forza: da che grammatica è grammatica, a questa parte del discorso non viene riconosciuta altra funzione che non sia quella di fare da controfigura al nome. Il cardinale Pietro Bembo, padre padrone della grammatica italiana, nelle sue Prose della volgar lingua (1525) lo chiamò addirittura vicenome. Per carità, le intenzioni di Bembo erano buone: vicenome era la traduzione letterale del latino pronomen (= che sta al posto del nome, che sostituisce il nome), con cui i grammatici latini avevano indicato questo tipo di parola. Ma la storia insegna che, a parte rare eccezioni, il vice conta sempre molto meno del qualcuno di cui è vice. Invece, il pronome conta almeno quanto il nome, e la sua versatilità non è certo inferiore a quella della parola di cui abitualmente fa le veci. Oltre che un nome, infatti, il pronome può sostituire anche altri tipi di parole, e perfino più parole messe insieme per formare una frase intera, come succede in questo esempio col pronome lo: «‘Ma Gianni, che cos’ha in testa?’ ‘Non lo so’» (= Non so che cos’ha in testa Gianni)’».

Inoltre, è ingiusto attribuire al pronome il ruolo di eterno sostituto, del nome o di qualcos’altro. A volte, infatti, il pronome non sostituisce alcunché. In «‘Che stai facendo?’ ‘Preparo qualcosa per la cena’» che e qualcosa sono pronomi, ma non sostituiscono nessun’altra parola.

Morale: in grammatica non c’è niente di sicuro. Niente, tranne le informazioni sui pronomi che vi daremo nelle pagine che seguono.

A me mi

«A me mi non si dice»: chi non si è sentito dire, almeno una volta, questa frase? La sequenza a me mi è una specie di archetipo dell’errore di lingua. Non a caso, attori e cantanti famosi l’hanno recitata o cantata con intenzioni palesemente e ironicamente provocatorie e liberatorie. In anni recenti, Gigi Proietti ha chiuso migliaia di volte la pubblicità televisiva di un caffè con un efficacissimo tormentone: «A me mi piace». Difficile dire se la sua espressione soddisfatta provenisse più dal bere il caffè che dal dire «a me mi». A nostra memoria, la sequenza a me mi fece la sua prima apparizione sul piccolo schermo nel 1973, quando Cochi e Renato portarono al successo la canzone A me mi piace il mare, composta qualche anno prima da Enzo Jannacci. Dopo Ponzoni e Pozzetto e prima di Proietti, l’a me mi tornò in televisione con Gigi Sabani, che lo esibì nella sigla di Premiatissima: A me mi torna in mente una canzone (1983). In un bel libro intitolato Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato Giuseppe Antonelli ha osservato che nelle canzoni «il gusto della trasgressione si avverte [...] quando a essere violato è il più classico dei tabù grammaticali, quello che censura l’uso del tipo a me mi». A riprova, Antonelli cita: «A me di lei non me n’è fregato niente mai» (Francesco De Gregori, Informazioni di Vincent, 1974); «Secondo voi ma a me cosa mi frega di prendermi la bega di star quassù a cantare» (Francesco Guccini, L’avvelenata, 1976); «A me mi piace vivere alla grande già / girare fra le favole in mutande ma» (Franco Fanigliulo, A me mi piace vivere alla grande, 1979); «Perché a me mi piace andare veloce» (Jovanotti, La mia moto, 1989), e così via.

Orbene, la nostra indulgenza nei confronti dell’A me mi non nasce solo dal personale apprezzamento per Guccini, De Gregori e Jovanotti, ma anche da più ponderate ragioni di ordine linguistico. In teoria la formula a me mi andrebbe rifiutata, perché è una ripetizione: mi vuol dire a me, e la frase incriminata starebbe a significare «a me a me piace». Chiunque dica o scriva a me mi piace, però, ha una forte attenuante. Nella nostra coscienza linguistica, quelle me mi non suona come una ripetizione, ma come un modo per mettere in evidenza la persona a cui piace. È come se dicessimo: «Quanto a me, mi piace»; «Quanto a lui, gli piace». In una lingua come lo spagnolo, che condivide con la nostra la provenienza dal latino, la ripetizione del pronome è grammaticalmente lecita: in spagnolo si può dire e scrivere non solo «me gusta», ma anche «a mi me gusta». É un errore, invece, dire o scrivere semplicemente «a mi gusta», il cui corrispettivo italiano «a me piace», invece, per noi è del tutto corretto.

Forse al relativismo etico non dobbiamo adeguarci, ma a quello grammaticale sì. Il nostro consiglio è di evitare a me mi in situazioni molto formali, ma di ricorrervi tranquillamente nella lingua quotidiana. Via libera anche a frasi del tipo «La guerra, la condannano tutti», oppure «Tutti la condannano, la guerra», in cui il pronome la non è di troppo, perché riprende o anticipa la parola guerra, mettendola in risalto come se fosse segnata con l’evidenziatore. I linguisti hanno dato dignità grammaticale a questo fenomeno di messa in evidenza attribuendogli un’etichetta impegnativa: lo hanno chiamato «dislocazione a sinistra o a destra del tema». Se qualcuno vi corregge un «a me mi piace», ditegli che non avete fatto un errore, ma una dislocazione a sinistra. Vedrete che non lo sentirete più fiatare.

Tu o te?

Nell’italiano che si parla oggi c’è una forte tendenza a usare, come soggetto al posto di tu, la forma te: «Dillo te»; «Te che fai?» invece che «Dillo tu»; «Tu che fai?». Si tratta di un errore? Nel parlato sicuramente non lo è; nello scritto, invece, è ancora percepito come tale, perché la norma grammaticale ha sempre attribuito alla forma te la funzione di complemento, non quella di soggetto. Però, nella sequenza io e te l’uso di te come soggetto è obbligatorio. Ecco alcuni esempi che portano firme al di sopra di ogni sospetto: «Dobbiamo fare qualcosa insieme, io e te» (Mario Tobino, Il clandestino, 1962); «‘Siamo rimasti io e te disse Ivos a Marta» (Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, 1980); «Io e te ci intendiamo perché parliamo delle stesse cose» (Umberto Eco, Il nome della rosa, 1983).

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