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Dubbi: da più migliore a più esteriore

Si può dire più migliore? No. Possiamo dire, indifferentemente, «Tizio è più buono di Caio» o «Tizio è migliore di Caio», ma non possiamo dire «Tizio è più migliore di Caio», perché più migliore equivarrebbe a dire «più più buono». Altre forme con cui non si può usare più sono esteriore, inferiore, interiore, posteriore, superiore, ulteriore. Il motivo è sempre lo stesso: come abbiamo visto, queste parole includono in partenza più nel loro significato. In altre parole, potremo dire: «Salgo al piano superiore», ma non: «Salgo al piano più superiore», perché superiore vuol dire «che è più sopra» e più superiore equivarrebbe a dire «che è più più sopra».

Un meglio che è meglio evitare

Nella commedia L’innesto, Luigi Pirandello fa dire a Francesca (che lui stesso descrive come una vecchia provinciale arricchita, un po’ sguaiata) questa frase: «Ah, quella che è istruzione, signora mia, m’è piaciuta assai, a me, sempre! Non l’ho potuta avere io; ma le mie figliuole, per grazia di Dio, i meglio professori! Francese, inglese, la musica...» Fra le prove dell’ignoranza grossolana di Francesca c’è quell’i meglio professori al posto di i migliori professori. Qualche volta anche noi, come Francesca, al posto delle parole migliore o peggiore (che sono due aggettivi), usiamo le forme meglio o peggio (che sono due avverbi, invariabili):

Dite:

Ma non dite:

Le occasioni migliori.

Le meglio occasioni.

giocatori peggiori.

I peggio giocatori.

Il senso linguistico comune considera questo un uso popolare, sicché vi sconsigliamo di praticarlo. C’è da dire, però, che se ne trovano esempi nell’italiano illustre e letterario. Meglio al posto di migliore piacque, per esempio, a Montale, che nella poesia Sarcofaghi scrisse: «Il meglio ramicello del tuo orto». E Pier Paolo Pasolini, nel 1954, diede a una sua raccolta di poesie in friulano il titolo italiano La meglio gioventù; titolo che ritorna, in forma di citazione, nel bel film di Marco Tullio Giordana che, attraverso le vicende di una famiglia, racconta trentasette anni di storia italiana, dall’estate del 1966 alla primavera del 2003.

A volte versatile, a volte inutile

L’aggettivo è una parola a volte versatile e a volte inutile. È versatile, perché può far fare le capriole al nome che accompagna: può apprezzarlo (un bell’uomo), disprezzarlo (una persona spregevole), colorarlo (un vestito verde), delimitare il suo raggio d’azione (una riunione militare), specificare di chi è (la mia borsa), da dove viene (un orologio svizzero), se è vicino (questo telefonino) o lontano (quella barca); può mettere il nome al centro di una domanda (Che musica ti piace? Quale piatto preferisci?) o di un’esclamazione (Quanta fretta!).

Attenzione, però. Con l’aggettivo non sono tutte rose e fiori. Molti, parlando o, soprattutto, scrivendo, aggiungono aggettivi che indicano caratteristiche ovvie e prevedibili con l’unico scopo di arricchire il nome. Sperano, così, di rendere il loro stile più elegante; in realtà, lo rendono solo più scontato e banale: «Tutti apprezzano il teatro immortale di William Shakespeare»; «A inventare la radio fu il grande scienziato Guglielmo Marconi»; «La guerra sanguinosa e crudele che si combatte in Afghanistan».

É ovvio che il teatro di Shakespeare sia immortale, che uno scienziato come Marconi sia considerato grande e che una guerra sia sanguinosa e crudele: l’aggettivo, in frasi del genere, non porta nessuna informazione nuova.

Ricorrete il meno possibile a queste formule (e ad altre simili a queste: una disgrazia terribile, un crimine efferato, un dolore inconsolabile, eccetera): eviterete tanti luoghi comuni. Un linguaggio sobrio ed essenziale è molto più gradevole ed efficace di un linguaggio appesantito da troppi aggettivi.

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