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Professioni al femminile

Lo stesso discorso vale per architetta, cancelliera, chirurga, deputata, ingegnera, magistrata, ministra, notaia, poliziotta, sindaca, eccetera. Anche verso questi nomi di professioni o cariche femminili ci sono ostilità e preconcetti: molti li rifiutano perché li considerano sgradevoli da pronunciare e da leggere. In realtà, sono parole come le altre, né belle né brutte: l’unica differenza sta nel fatto che siamo meno abituati a sentirle e a leggerle.

Ecco un elenco dei nomi di professione che possono suscitare incertezze, con le corrispondenti forme al femminile, del tutto legittime e già registrate, da tempo, nei dizionari della lingua italiana:

Maschile Femminile

il pilota la pilota

l’assessore l’assessora

il dottore la dottoressa

il professore la professoressa

il questore la questura

il cancelliere la cancelliera

l’ingegnere l’ingegnera

il finanziere la finanziera

l’usciere l’usciera

il giudice la giudice

il presidente la presidente

lo studente la studentessa

il vigile la vigile (meglio detta vigilessa)

l’architetto l’architetta

l’appuntato l’appuntata

l’avvocato l’avvocata

il bagnino la bagnina

il chirurgo la chirurga

il deputato la deputata

il magistrato la magistrata

il ministro la ministra

il notaio la notaia

il poliziotto la poliziotta

il sindaco la sindaca

il soldato la soldata

Accostamenti pericolosi

Per indicare certe professioni o certi ruoli svolti da donne c’è anche un’altra possibilità: aggiungere la parola donna al nome maschile che indica la professione o la carica: donna giudice, donna magistrato, donna poliziotto o sindaco donna, notaio donna, chirurgo donna, eccetera. Questo tipo di accostamento, apparentemente neutro, è, a parer nostro, ancora peggiore rispetto ai nomi riferiti a donna ma lasciati al maschile, perché sposta l’attenzione sul sesso della persona invece che sul ruolo professionale svolto. A proposito di accostamenti, un bell’esempio di accostamento inopportuno lo abbiamo ascoltato il 31 agosto 2010, in occasione dell’incontro di Muammar Gheddafi con la ministra delle Pari Opportunità Mara Carfagna e con rappresentanti del mondo femminile. Precisiamo che l’inopportunità non è da attribuire a Gheddafi, ma a chi ha tradotto in simultanea il suo discorso. Dopo aver reso, sicuramente in italiano corretto, l’inizio in questo modo: «Credo che in una società giamahiriana, cioè delle masse, ci sia assoluta uguaglianza tra uomini e donne», il traduttore (o la traduttrice) ha fatto dire a Gheddafi: «Prima di tutto saluto e apprezzo gli sforzi della signora ministro, che ha lavorato per agevolare questo incontro, e saluto le donne italiane che hanno aderito a questo appello. Io in ogni Paese che visito, incontro le donne, come faccio con gli uomini». D’accordo, in quel caso si trattava di una traduzione simultanea, con tutte le difficoltà e la tensione nel rendere le sottigliezze del pensiero della Guida della rivoluzione e massima autorità della Libia. Ma in altri casi non è colpa della traduzione: il 10 ottobre 2001 l’onorevole Giovanni Russo Spena si rivolgeva a Letizia Moratti con queste parole: «Signora Ministro, le chiedo se veramente il Governo voglia [...] smantellare la ricerca pubblica attuando una gravissima privatizzazione della ricerca». Cambiano i ministri, anzi le ministre, come noi suggeriamo di dire e scrivere, ma le cattive abitudini restano. Il 5 ottobre 2010 la senatrice Vittoria Franco ha chiuso così il discorso, rivolto a Mariastella Gelmini: «Noi le rimproveriamo, Signora Ministro, di non tutelare i settori sui quali il suo Dicastero ha la competenza». Insomma, l’accostamento signora ministro non funziona: né da un punto di vista grammaticale, né dal punto di vista del semplice buon senso. O signora ministra o signor ministro: signora ministro non sta in piedi. Né dal punto di vista del rispetto per la grammatica, né dal punto di vista del rispetto per la donna.

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